САНКТ-ПЕТЕРБУРГСКИЙ ГОСУДАРСТВЕННЫЙ УНИВЕРСИТЕТ
Филологический факультет
Кафедра романской филологии
Макарова Мария Кирилловна
ПОЭЗИЯ ТОНИНО ГУЭРРА НА РОМАНЬОЛЬСКОМ
ДИАЛЕКТЕ В ПЕРЕВОДЕ НА ИТАЛЬЯНСКИЙ ЯЗЫК
Выпускная квалификационная работа на соискание степени магистра лингвистики
Научный руководитель: к.ф.н., доцент Кокошкина С.А.
Рецензент: к.ф.н. Золотайкина Е.А.
Санкт-Петербург
2016
UNIVERSITÀ STATALE DI SAN PIETROBURGO
Facoltà di lettere
Dipartimento di filologia romanza
Maria Makarova
LA POESIA DI TONINO GUERRA
TRADOTTA DAL DIALETTO ROMAGNOLO IN ITALIANO
Tesi di laurea magistrale
Relatore: prof. S. Kokoshkina
Correlatore: prof. E. Zolotaykina
San Pietroburgo
2016
Indice
Introduzione ....................................................................................................................... 3
Capitolo 1. Le particolarità del dialetto romagnolo e gli aspetti teorici della traduzione del testo
poetico. ............................................................................................................................................7
§1. La lingua romagnola .............................................................................................................7
1.1 La geografia della diffusione del romagnolo .........................................................................7
1.2 Le origini della lingua romagnola .........................................................................................8
1.3 La rappresentazione grafica del dialetto romagnolo..............................................................9
1.3.1 La pronuncia delle vocali romagnole .............................................................................10
1.3.2 La pronuncia delle consonanti romagnole ........................................................................11
1.4 La grammatica della lingua romagnola ...............................................................................13
§ 2. Il testo poetico. ...................................................................................................................15
2.1 La traduzione del testo poetico ............................................................................................16
2.2 La traduzione dei realia .......................................................................................................20
2.3 L’aspetto pragmatico della traduzione ................................................................................21
§3. Criteri di valutazione di una traduzione .............................................................................24
3.1 L’adeguatezza e l’equivalenza della traduzione ..................................................................24
3.2 L’analisi componenziale. ....................................................................................................27
Capitolo 2. L’analisi della traduzione italiana dei versi dialettali della raccolta poetica «I bu» di
Tonino Guerra. .............................................................................................................................. 29
§1. La traduzione dei realia.......................................................................................................30
1.1 La traduzione degli antroponimi .........................................................................................30
1.2 La traduzione della topografia santarcangiolese ................................................................ 33
§2. La traduzione delle frasi idiomatiche romagnole ............................................................... 43
§3. I casi particolari della traduzione ........................................................................................50
Conclusioni ...................................................................................................................................63
Bibliografia ...................................................................................................................................67
2
Introduzione
Il tema della seguente tesi è la poesia di Tonino Guerra tradotta dal dialetto
romagnolo in italiano. Il materiale scelto per la tesi è la raccolta di poesie dialettali «I
bu» (Tonino Guerra, 1972) e la loro traduzione italiana. Oggi questo libro di Tonino
Guerra rappresenta una delle migliori e poche raccolte di poesie dialettali romagnole
tradotte in italiano (Lingua-dialetto-poesia 1973: 8).
Nel 1973 nella città natale di Tonino Guerra Santarcangelo di Romagna, sotto
l’egida della biblioteca civica, si è svolto il «Seminario popolare su Tonino Guerra e
la poesia dialettale romagnola». Questo seminario intendeva allargare il discorso al
rapporto tra lingua italiana e dialetto, tra cultura dominante e cultura popolare. Alla
preparazione del seminario hanno partecipato filologi e linguisti conosciuti in tutto il
mondo: Rina Macrelli, Augusto Campana, Tullio De Mauro. Nel corso del seminario
Tonino Guerra è stato parecchie volte soprannominato «il grande poeta romagnolo».
Ciò vuol dire che è stato proprio Tonino Guerra a portare nel mondo il dialetto
romagnolo e a creare interesse per il romagnolo non solo negli italiani, ma anche negli
stranieri che vengono in Romagna per diversi motivi, tra i quali anche quello di
sentire come la gente locale parla in romagnolo.
Tonino Guerra diceva:
«Io ho scritto in dialetto perché il mio popolo era questo qui, era il popolo
romagnolo. Cioè mi interessava fare andare avanti o consigliare delle cose a questa
gente qui, a questo popolo qui e non al popolo d’Aosta. Se poi indirettamente ho fatto
delle poesie che vanno al di là del segno, cioè al di là della parola, è un altro paio di
maniche. Allora posso arrivare indirettamente all’altro popolo» (Lingua-dialettopoesia 1973: 10).
Il problema dell’identificazione delle diverse lingue parlate in Italia non è risolta
finora. Fino agli anni Sessanta in molte regioni italiane i dialetti sono stati usati come
segno di esclusione sociale. Un uso del dialetto che serve ai nativi di un certo luogo
non solo per riconoscersi tra di loro, ma per chiudersi mettendo al bando chi viene da
fuori.
3
Il saper parlare l’italiano all’epoca voleva dire essere una persona privilegiata, e
non saperlo fare, il sapere parlare solo il proprio dialetto, era segno di appartenenza
alla classe sociale più bassa della popolazione. Era una forma di esclusione sociale
ancora attuale, essendoci ancora adesso persone nate e cresciute quei tempi: la questione
dei rapporti lingua-dialetto resta per questo molto difficile da risolvere.
Tuttavia, la questione dell’identificazione delle parlate è un problema linguistico.
Normalmente il romagnolo viene chiamato «la lingua» anche se esistono gli scienziati
che non riconoscono al romagnolo pari dignità con la lingua italiana. Nella seguente
tesi il tema dell’identificazione del romagnolo non viene presa in considerazione e per
definire il romagnolo vengono usati seguenti termini: «dialetto», «lingua», «idioma».
I termini sono usati per definire lo stesso fenomeno linguistico.
Uno dei più famosi studiosi del romagnolo, Friedrich Schürr, diceva che «non
esiste un dialetto romagnolo, ma un'infinità di parlate romagnole degradanti di luogo
in luogo, quali continue variazioni su un fondo comune» (Schürr 1974: 13).
Nonostante il fatto che nella tesi parliamo del dialetto romagnolo, Tonino Guerra
ha scritto le sue opere in santarcangiolese. Secondo il linguista austriaco non esiste un
dialetto romagnolo e secondo qualche altro studioso non esiste neanche un dialetto
santarcangiolese. Questo si spiega con il fatto che il paesino di Santarcangelo è diviso
in tre parti e in ogni parte si parla un idioma diverso.
Tonino Guerra comincia a scrivere le sue poesie nel campo di concentramento
durante la seconda guerra mondiale. Proprio nel periodo fascista il dialetto cessa di
esistere come unico mezzo di comunicazione. I professionisti dei diversi settori,
insegnanti e anche intere famiglie cominciano a parlare in italiano abbandonando
progressivamente il dialetto. Nonostante ciò il santarcangiolese è ancora parlato. Per
tanti migranti e linguisti come Rina Macrelli, Tonino Guerra, Tullio De Mauro,
Angelo Fabi e Augusto Campana il dialetto per lungo tempo rimaneva parte della loro
cultura e ciò che li legava con il loro paesino natale.
L’oggetto dello studio della presente tesi è il lessico romagnolo usato nella
raccolta di poesie dialettali di Tonino Guerra e tradotto da Roberto Roversi in italiano.
La raccolta pubblicata nel 1972 dall’editore Rizzoli non è stata scelta a caso. «I bu» è
una raccolta di poesie scritte da Guerra ancora durante la Seconda guerra mondiale. Il
4
giovane Tonino Guerra durante la prigionia in un campo di concentramento nazista
scoprí di essere un poeta di talento. Guerra rimeggiava e raccontava a memoria le sue
poesie agli altri prigionieri, cercando di sollevargli l’animo. Si trattava di poesie
scritte in dialetto che parlavano della loro terra.
Lo scopo del presente studio è quello di capire se il traduttore dell’oggetto
poetico prescelto sia riuscito a mantenere intatti i riferimenti culturali, se
l’informazione sia stata trasmessa correttamente con i mezzi poetici equivalenti e se la
traduzione dal romagnolo all’ italiano dell’oggetto di studio risponda ai criteri di
adeguatezza.
Per raggiungere tale obiettivo sarà necessario affrontare le seguenti questioni:
- definire i tratti caratteristici della lingua romagnola;
- studiare le particolarità della traduzione della poesia dialettale e della poesia
in generale;
- studiare dal punto di vista dell’etimologia il lessico romagnolo delle poesie
della raccolta «I bu»;
- scoprire i mezzi della traduzione più comuni usati da Roberto Roversi e
definire il perché delle scelte del traduttore.
Il materiale linguistico della tesi è rappresentato da tutte le poesie della raccolta
«I bu» di Tonino Guerra. Per lo studio è stata presa in esame l’ultima edizione della
raccolta pubblicata nel 1972. Inoltre come materiale linguistico è stata anche usata la
traduzione italiana delle poesie eseguita dall’amico del cuore di Tonino Guerra
Roberto Roversi. Durante tutto il periodo lavorativo gli scrittori sono rimasti sempre
in contatto e il traduttore ha sempre cercato di dare ascolto ai consigli del grande
poeta romagnolo per ciò che riguardava «I bu». Nel corso del Seminario popolare
questa traduzione è stata criticata parecchie volte dai diversi linguisti, ma nonostante
ciò proprio questa traduzione è stata accettata dall’autore stesso delle poesie (Linguadialetto-poesia 1973: 58).
La parte teorica della tesi è dedicata allo studio della lingua romagnola e delle
sue particolarità grammaticali. Inoltre viene fatta una ricerca sulla diffusione,
5
formazione e grafia del dialetto. Per comprendere l’adeguatezza della traduzione del
Roversi è stato essenziale volgere particolare attenzione allo studio della traduzione
del testo poetico in generale. Gli autori più consultati nel corso della stesura della
parte teorica sono: Tullio De Mauro, Ferdinando Pelliciardi, Friedrich Schürr, Luca
Serianni, L. Barkhudarov, V. Komissarov, V. Vinogradov, A. Bondarco, D. Rosental’.
Come diceva il sindaco del Comune di Santarcangelo negli anni 70’
«In molte poesie Tonino Guerra ha parlato come parlavano negli anni 50’
l’operaio e il contadino di Santarcangelo che si preparavano alla riscossa, dopo
l’oppressione fascista. Alla riscossa non solo politica ma anche a quella culturale»
(Ivi: 38).
Guerra scriveva le sue poesie per non dimenticare la Patria, e proprio per questo
i ricordi in esse sono cosí importanti. Rendere tali memorie in lingua italiana
conservando le caratteristiche proprie del dialetto richiede un duro lavoro. Il traduttore
si chiede sempre: che cosa bisogna lasciare nella traduzione? Quali deficienze e
manchevolezze sono accettabili e quali non lo sono? Spesso bisogna scendere a
compromessi, sacrificare determinati elementi. Ciò conduce a esprimere una
preferenza nei confronti della forma o del contenuto dell’opera. Queste difficoltà
attirano l’interesse per lo studio della traduzione già eseguita e l’analisi di essa aiuta
ad approfondire la ricerca sul dialetto.
I risultati della presente tesi potranno essere utilizzati per ricerche legate alla
scienza della traduzione, nell’insegnamento dell’italiano a stranieri, ma sopratutto
saranno utili a tutti coloro i quali amano la poesia dialettale.
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Capitolo 1. Le particolarità del dialetto romagnolo e gli aspetti
teorici della traduzione del testo poetico
§1. La lingua romagnola
La lingua romagnola è il dialetto che fa parte del gruppo gallo-italico ed è diffusa
in Romagna, cioè nella parte sud-est dell’Emilia-Romagna. Inoltre l’idioma viene
parlato nella Repubblica di San Marino, in parte della provincia marchigiana e nella
parte romagnola della Toscana, dove il romagnolo si mescola con il dialetto toscano.
1.1 La geografia della diffusione del romagnolo
Il confine occidentale della diffusione del dialetto romagnolo è il fiume Sillaro.
Dall’altra parte del fiume viene parlato il dialetto emiliano. Al nord della regione il
confine naturale tra il dialetto romagnolo e il dialetto ferrarese è il fiume Reno. Al
sud il romagnolo è parlato in tutta la provincia di Rimini, alla quale dal 2009 fa parte
tutta la valle del Marecchia. Fuori dall’Emilia-Romagna il dialetto è parlato nella
Repubblica di San Marino, dove il romagnolo viene chiamato “sammarinese” e anche
nella valle del fiume Conca. Spostandosi verso sud si sente di più la differenza tra il
dialetto romagnolo e i dialetti gallo-italici diffusi nelle Marche (Schürr 1974: 21).
La parte romagnola della Toscana è un territorio abbastanza vasto situato attorno
agli Appennini. Dal punto di vista dello sviluppo geografico e culturale questo
territorio ha sempre fatto parte della Romagna, nonostante il fatto che dall’inizio del
Quattrocento esso fosse sotto il dominio di Firenze. Secondo la divisione
amministrativa in questa zona per il momento si trovano i territori di tre comuni. Nei
comuni di Marradi e Palazzuolo sul Senio si parla in dialetto romagnolo con qualche
elemento del toscano (diverse parole toscane e alcuni inflessioni del toscano). Nel
comune di Firenzuola prevale invece il dialetto toscano.
7
1.2 Le origini della lingua romagnola
Il dialetto romagnolo fa parte del gruppo degli idiomi gallo-italici che a loro
volta fanno parte del gruppo delle lingue romanze. La regione detta più tardi
“Románia” in opposizione alla “Lombardìa” (= Lombardia, accentata alla greca dai
Bizantini dell’esarcato di Ravenna, d’altra parte del resto della romanità balcanica,
chiamata Romanìa ugualmente dai Bizantini) ha preso parte naturalmente al
cambiamento più importante del cosiddetto latino volgare di fronte al latino classico.
Il latino volgare naque nel periodo dell’Alto Medioevo (Grassi, C., Sobrero, A.A., e
Telmon, T. 2012: 219). Diversi dialetti di questo latino volgare furono caratterizzati
dalla scomparsa di strette regole di fonetica e di morfologia. Per esempio, nella
maggior parte dei dialetti del latino volgare scomparve la declinazione dei nomi
(Pelliciardi 1977: 10).
La formazione della lingua romagnola è caratterizzata da diversi fattori storici e
culturali. Secondo gli studi di Friedrich Schürr per il romagnolo una grande
importanza ha avuto il periodo bizantino (i secoli VI, VII, VIII), quando come già
menzionato tutto il territorio dell’attuale Romagna si trovava sotto l’esarcato di
Ravenna. L’altra parte della pianura Padana era sotto il dominio del Regno
Longobardo. A causa dell’isolamento politico e geografico proprio in quel periodo il
dialetto romagnolo acquisí i suoi aspetti caratteristici (Schürr 1974: 23).
L’influenza delle lingue germaniche durante le invasioni dei barbari è il secondo
fattore della formazione della lingua romagnola. Esiste un gruppo di vocaboli rimasti
dopo le invasioni. Cosí per esempio le parole “trinchêr” (ubriacarsi) e “runfêr”
(russare) sono rimaste nella lingua dopo l’invasione del popolo di Teodorico il Grande
(il re degli Ostrogoti sepolto a Ravenna) (La Ludla, Pioggia 2012 online: 7).
Inoltre la formazione del romagnolo fu influenzata dal latino parlato a quei
tempi in tutto il territorio dell’Appennino.
Secondo la teoria del linguista italiano Graziadio Ascoli la formazione e il
cambiamento di una grande parte dei dialetti diffusi al Nord dell’Appennino furono
influenzati dal substrato celtico.
8
Il suono e la pronuncia di alcune parole romagnole sono molto simili a quelle
delle parole germaniche, cioè alle parlate dei Longobardi e dei Franchi. Alcuni
studiosi suppongono che con l’arrivo di questi popoli (VIII-IX secoli) nel romagnolo
iniziano a cadere tutte le vocali atone ad esclusione della vocale “a” che si è
conservata in tutte le posizioni.
Di conseguenza, parole che in latino sono trisillabe o di quattro sillabe, in
romagnolo sono solo di una sillaba. Per esempio, il latino “gеnuculu” (ginocchio) in
romagnolo è “znòс”, il lаtinо “осulu” è “òс” in romagnolo, “frigidu” (freddo) nel
dialetto romagnolo è “frédd”.
Inoltre questo dialetto è caratterizzato da una flessione interna. Le vocali di una
flessione si alternano facendo sí che si possono distinguere il numero e il genere dei
nomi (Pelliciardi 1977: 28).
1.3 La rappresentazione grafica del dialetto romagnolo
Il problema della grafia del dialetto esiste quasi in ogni regione italiana e in
romagnolo è presentato dalle difficoltà del trovare una soluzione di compromesso tra
quella che è la grafia scientifica dei linguisti e un tipo di grafia che sia leggibile da
tutti. Ferdinando Pelliciardi nella sua grammatica del dialetto romagnolo ha scritto:
«Ognuno è libero di scrivere in dialetto come gli pare. Anche perché il
romagnolo potrebbe essere considerato un poco alla stregua dell’inglese: i suoni sono
tanti e bisogna conoscergli anche senza l’ausilio di una simbologia particolare.
Quindi, ben venga chi usa solo le lettere dell’alfabeto! Però, la volta che gli aggrada di
usare un simbolo, non sarebbe un errore se usasse quello giusto! E, se tutti lo
facessero, sarebbe un bel sollievo per il povero lettore» (Ivi: 12).
La difficoltà principale che si incontra nella scrittura di testi dialettali romagnoli
consiste nell’impossibilità di rendere con i soli simboli dell’alfabeto italiano tutti i
suoni propri del dialetto. Sopratutto i segni vocalici, che già non bastano per i sette
suoni italiani, sono largamente insufficienti a tradurre graficamente la varietà di vocali
romagnole. È per questo motivo che ognuno in suo modo proprio cerca di rendere i
suoni del dialetto. Uno utilizza la grafia italiana pura, l’altro utilizza i simboli grafici
ed i segni diacritici (La Ludla. Fonologia del Santarcangiolese [online]).
9
Tuttavia nel 1998 nel giornale dell’Istituto di Friedrich Schürr sono state raccolte
le norme della grafia dialettale romagnola e secondo le quale per rendere tutti i suoni
ci vogliono ventidue simboli dell’alfabeto italiano:
a, b, c, d, e, f, g, h, i, j, l,
m, n, o, p, q, r, s, t, u, v, z,
e sette segni diacritici da usarsi con le vocali:
accento acuto ( ´ )
accento grave ( ` )
accento circonflesso ( ˆ )
dieresi ( ¨ )
tilde ( ˜ )
accento lungo ( ¯ )
ed un segno simile a quello di
accento breve ( ˘ ) da usarsi con le consonante.
1.3.1 La pronuncia delle vocali romagnole
Le vocali sono sei: a, e, i, j, o, u.
Lo “j” viene utilizzato davanti a una vocale.
Quando le vocali si trovano in sillaba atona hanno lo stesso suono che
possiedono nella lingua italiana. In sillaba tonica invece possono avere una varietà di
suoni diversi. Questi suoni vengono contraddistinti con opportuni simboli grafici e
hanno due compiti: accento tonico, poiché individuano la sillaba accentata, e quello di
segno diacritico, poiché indicano il suono della vocale.
Nella tabella №1 sono rappresentati i gradi di sonorità delle diverse vocali.
Tabella 1.
Suono
Atono
Chiuso
Vocali
a
U
i
é
ó
10
Semiaperto
Aperto
Apertissimo
Nasale completo
Nasale parziale
à
ã
ā
ê
è
ë
ẽ
ē
í
ô
ò
ö
õ
ō
Ù
1.3.2 La pronuncia delle consonanti romagnole
Da sedici simboli consonantici, alcuni corrispondono ad un unico suono mentre
altri o possono essere pronunciati in più di un modo o, combinati tra loro, possono
dare origine a nuovi suoni.
1.
Le consonanti “c” e “g” hanno due suoni diversi:
- uno duro (“k”, “g”) quando precedono una delle vocali “a”, “o” od “u”,
oppure quando
precedono un’altra consonante (compresa la lettera “h”).
Es.: “сãn” – cane , “chẽn” – cani, “gàt” – gatto, “ghёt” – gatti;
- uno dolce (“ tʃ ” e “dʒ”) quando precedono una delle vocali “e” od “i” oppure
in fine di parola.
Es.: “сèrgh”- chierico, “ciôd” – chiodo, “giàz” – ghiaccio, “gêval”- diavolo,
“radèc” – radicchio, “rùg” – urlo.
2. La consonante “h”, in dialetto come in italiano, non ha un suono proprio. Essa ha
l’unica funzione di rendere gutturale il suono di “c” e “g”, quando necessario. A
differenza dall’italiano, non è obbligatoria nelle voci dell’indicativo presente del
verbo “avér” (avere), nè nelle esclamazioni.
3. Le consonante “m” ed “n” non devono essere pronunciate quando seguono una
vocale con suono nasale completo.
11
Es.: “сãn” – cane, “canõn” – cannone, “vẽn” – vino, “stãmp” - stampo,
“fiõm” – fiume, “zẽmpal” – mattacchione.
4. La consonante “q”, che in italiano si trova soltanto abbinata alla voce “u”, in
dialetto non è generalmente pronunciata. Il gruppo “qu” italiano è sostituito da
quello “cv”. Nei testi, tuttavia sono utilizzate entrambe le grafie.
Es.: “àqua”, “àcva” (acqua).
5. La consonante “r” non va pronunciata nell’infinito presente dei verbi della prima,
seconda e quarta coniugazione e l’accento tonico cade sull’ultima sillaba.
Es.: “andêr” (andare), “avdér” (vedere), “finír” (finire).
6. Le consonanti “s” e “z” hanno due suoni diversi:
- uno aspro (“s”, “ts”).
Es.:
“sóigh” - solco, “màz” – mazzo, “sèmpar” – sempre, “staziõn” –
stazione;
- uno dolce (“z”, “ds”) e in questo casi si utilizza il simbolo “ ˘ ”:
Es.: “ciša” – chiesa, “màž” – maggio, “paéš” – paese, “žnöc” – ginocchio.
7.
La consonante “v” può avere due suoni:
- uno aspirante sonoro “v”, quando è preceduta da vocale i all’inizio di parola.
Es.: “vóip” – volpe, “òva” – uva;
- uno semivocalico “w”, quando è preceduta da “c” o “g”.
Es.: “àcva” – acqua, “bígval” – ombelico, “cvèst” – questo.
8. Il gruppo “gn” ho lo stesso suono dell’italiano “ñ” qualunque sia la vocale che lo
segue.
Es.: “gnìt” – niente, “ignurãnt” – ignorante.
12
9. Il gruppo “gl” quando è seguito dalla vocale “i” seguita a sua volta da un’altra
vocale, ha lo stesso suono dell’italiano “λ”.
Es.: “agliõn” – leone, “cunsigliêr” – consigliare.
I suoni di “g” duro ed “l” restano distinti quando il gruppo “gl” è seguito da una
vocale diversa da “i”.
Es.: “glôria” – gloria, “glupê” – involto.
10. Il digramma italiano “sc” non esiste in dialetto con la stessa pronuncia
dell’italiano ma si confonde con la “s” aspra.
Es.: “sèmia” – scimmia, “cusẽn” – cuscino, “siöch” – sciocco.
In tutti i casi un cui le due consonanti “s” e “c” si trovano abbinate, esse vanno
pronunciate
separatamente, anche quando la “c” la suono dolce come negli esempi
seguenti: “sciöp” – schioppo, “fésc” – fischio, “scér” – secchiaio.
11. A differenza dall’italiano nel dialetto le consonanti non si raddoppiano per il
rafforzo del suono. Tuttavia si incontrano casi in cui il raddoppio apparente deriva
della fusione di due parole.
Es.: “dissët” – diciassette composto da dis – dieci e sët – sette, “immurciê” –
sporco di morchia composto dal prefisso in e da murciê (da mórcia, morchia).
In taluni casi la caduta delle vocali atone ha causato l’avvicinamento di consonanti
che, assimilandosi, hanno dato origine ad un raddoppio apparente (Vitali, Canepari
2010 online: 57).
Es.: “baddór” – (battitore) da batdór, derivante a sua volta da batidór.
1.4 La grammatica della lingua romagnola
Dal primo sguardo può sembrare che la grammatica del romagnolo sia identica a
quella dell’italiano, ma non è cosí. Esistono non solo i fenomeni caratteristici del
dialetto ma ci sono anche assenze di alcuni fenomeni grammaticali presenti nella
grammatica italiana. Ne conseguono delle difficoltà che sorgono nel corso della
traduzione dei testi romagnoli in italiano.
Elenchiamo qui tutti i punti caratteristici della grammatica romagnola.
13
Prima di tutto, bisogna dire che la forma personale soggetto precede sempre,
salvo pochi casi eccezionali, il verbo in modo finito, anche in presenza di un soggetto
esplicito. Nella tabella 2 è rappresentata la coniugazione del verbo èsar (essere).
Tabella №2
Italiano
Romagnolo
Io sono
Mè a sò
Tu sei
Te t sí
Lui è
Lò l’è
Noi siamo
Nõ a sẽn
Voi siete
Vó a sí
Loro sono
Ló j’è
Dove
“mè”, “te”,
“lò”,
“nõ”, “vó”,
“lò” sono i pronomi personali che
equivalgono agli italiani io, tu, lui, noi, voi, loro. Invece “a”, “t”, “l”, “a”, “a”, “j”
sono i soggetti obbligatori assenti in italiano.
A differenza dall’italiano in romagnolo l’accento ogni volta si sposta dalla radice
alla desinenza quando si aggiunge un suffisso o si varia una desinenza. Nella tabella
№3 sono rappresentate le parole in cui lo spostamento dell’accento fa cambiare la
lettera della radice (“a” diventa “u”).
Tabella №3
Romagnolo
Romagnolo
Italiano
a mòv
a muvíva
Muovere
a còsg
a cusgíva
Cuocere
a giòg
giughè
Giocare
a vòl
vulè
Volare
14
Inoltre, se parliamo del verbo, nel dialetto romagnolo sono assenti seguenti
forme grammaticali: il passato remoto e il participio presente (Marcello Maioli 2013
online: 15).
§ 2. Il testo poetico
La parola poesia deriva dal greco poieo ciò vuol dire “creare”, “formare”. Quindi
etimologicamente vuol dire letteralmente “il processo della creazione”. Il
testo
poetico è un fenomeno non solo culturale, sociale o psicofisiologico, ma prima di tutto
è un fenomeno spirituale che ha le sue caratteristiche specifiche. Secondo la ricerca
eseguita da J. Kazarin sono seguenti:
- la coesione (la massima formalizzazione del testo: prosodia, tonalità, rima,
ritmo, ecc);
- la compiutezza a) formale; b) semantica; c) della tonalità;
- l’integrità (è assente la variante del piano dell’espressione);
- l’inseparabilità dal contesto culturale;
- la sufficienza formale e semantica;
- la polisemia dei sensi del testo (si può interpretare il contenuto in tantissimi
modi diversi) (Kazarin 1999: 9).
Non si tratta di una lista completa, siccome la poesia come altre forme delle
attività spirituali dell’uomo non può essere conosciuta fino alla fine.
Le macrocomponenti del testo poetico sono tre:
- culturale (l’informazione poetica: chi? dove? quando?);
- linguistica (microcomponenti del testo poetico: grafico, ritmico, della tonalità,
prosodico, fonetico, livello della derivazione linguistica, lessicale, sintattico);
- estetica (come? perché? con quale meta? ecc.).
La poesia apparí nei tempi in cui la scrittura non esisteva ancora, perciò il testo
poetico dall’inizio esiste nella forma orale. Сon l’apparizione della scrittura il testo
poetico è presente in tre forme: la forma scritta, la forma orale e la forma del discorso
interno (quando uno legge e percepisce il testo poetico scritto).
15
Il testo poetico come l’oggetto di una ricerca scientifica linguistica rappresenta
un sistema complesso, per cui l’analisi di esso richiede uno studio scrupoloso che
riguarda tanti aspetti. Tuttavia, questa analisi è indispensabile per i poeti-traduttori
che affrontano la questione della traduzione di un testo poetico.
2.1 La traduzione del testo poetico
Uno dei primi a parlare della traduzione del testo poetico è stato il grande poeta
russo Nikolaj Gumilëv (Davidson 2008: 67).
Secondo il poeta esistono tre modi di tradurre la poesia. Il primo è quello in cui il
traduttore si serve del metro, delle parole e della combinazione delle rime che gli sono
venuti in mente casualmente. Ovviamente, questo tipo di traduzione è amatoriale. Il
secondo modo è caratterizzato dalla base teorica che usa il traduttore. Insomma, non
c’è tanta differenza dal primo modo, ma il traduttore si giustifica con alcuni concetti
teorici (Gumilёv ristampa del 2007).
Secondo gli studi di Nikolaj Gumilëv, la prima cosa che attira l’attenzione di
lettore è il pensiero o l’immagine, siccome il poeta ragiona con gli immagini. Dopo
aver scelto l’immagine, il traduttore si chiede del suo sviluppo e delle sue proporzioni.
A seconda di questi due concetti si sceglie la quantità delle righe e delle strofe. A
questo punto, secondo Gumilëv, il traduttore deve seguire l’autore dell’originale e non
deve cambiare la lunghezza del verso. È impossibile cambiare questa lunghezza senza
cambiare la tonalità.
Per quanto riguarda le strofe, ogni di essa crea un senso
particolare, perciò la conservazione delle strofe è un obbligo del traduttore (Ivi: 345).
Ogni poeta ha un suo proprio stile e il traduttore prima di eseguire la traduzione
del testo poetico deve sempre studiare la poetica dell’autore. Nei versi si può
incontrare spesso i parallelismi, le ripetizioni, le indicazioni del tempo o del posto, le
citazioni ed altri mezzi dell’influenza sul lettore e Gumilëv consiglia di conservarli
nella traduzione. Inoltre, tanti poeti prestano attenzione al significato della rima.
Infine, rimane il lato sonoro del verso che è un concetto difficilissimo da
trasmettere per il traduttore. Ogni metro ha le sue particolarità e le difficoltà sorgono
quando vengono tradotti i testi poetici in una lingua in cui i metri si distinguono da
16
quelli della lingua di partenza. In questi casi ogni lingua si inventa un sistema e i
traduttori cercano di seguirlo.
Il segno importante del lato sonoro del testo poetico è la rima. La composizione
sonora delle rime è diversa in ogni lingua e può anche cambiare con il tempo. La cosa
importante è che le rime cambiano non solo con le lingue ma anche con la personalità
del poeta. Cosí a uno piacciono le rime per l’occhio, ad altro quelle per l’orecchio.
Tuttavia, il traduttore seguire il carattere della rima scelto dall’autore del testo
originale.
Il concetto importante per la poesia è “l’enjambement” o cosidetta inarcatura.
Si tratta del spezzamento della frase a fine verso. Cosí non coincidono le pause
ritmica e quella logica. Anche a questo punto il traduttore deve sempre seguire
l’autore del testo poetico originale.
Insomma, secondo il grande scrittore Gumilëv, il traduttore del poeta deve essere
lui stesso non solo poeta, ma anche uno studioso e critico attento. Cosí, scegliendo tra
i tratti più caratteristici della poesia originale, il traduttore può anche sacrificare
determinati elementi. Importante che dimentichi della sua personalità e ricorda solo
quella dell’autore dell’originale (Ibidem).
È impossibile creare una traduzione ideale, ma elenchiamo nove concetti che
sono obbligatori da lasciare intatti in una qualsiasi traduzione secondo Nikolaj
Gumilëv:
1. la quantità delle righe;
2. il metro;
3. l’alternanza delle rime;
4. il carattere dell’ enjambement;
5. il carattere della rima;
6. il carattere del vocabolario;
7. il tipo delle comparazioni;
8. i metodi particolari;
9. la tonalità.
Nonostante l’esistenza delle regole come queste di Gumilёv, non ogni traduttore
le segue. Per di più, ci sono delle traduzioni perfette che non conservano quasi niente
17
dell’originale. Oggi la traduzione poetica viene intesa come la creazione di un testo
completamento nuovo (dal punto di vista della forma, ma capita spesso che anche dal
punto di vista del contenuto), basato sullo “spirito” e non sulla “lettera” del testo
originale.
Facendo la traduzione di un qualsiasi testo poetico il traduttore deve sempre fare
attenzione al sistema poetico non solo della lingua di arrivo ma anche a quello di
partenza. Perché a ogni lingua corrisponde il suo proprio sistema poetico. Essi sono
caratterizzati da diversi fattori che a loro volta dipendono dalle caratteristiche
fonetiche delle vocali nella sillaba. Le sillabe si dividono in due gruppi, atone e
toniche, mentre le vocali possono essere lunghe o brevi.
Poiché nella lingua italiana le parole in generale vengono accentate sulla
penultima sillaba, il sistema poetico di questa lingua non parte dall’accento, ma dalla
quantità delle sillabe e viene chiamato sillabico. La poesia sillabica è caratterizzata dal
fatto che in essa
«la quantità delle sillabe in uno verso e la posizione di alcuni accenti (nel mezzo
e alla fine del verso) sono fissi. Gli altri accenti (all’inizio di ogni mezzo verso) non
sono fissi e possono cadere su altre sillabe» (Kvjatkovskij 1966: 630).
Nonostante il fatto che il sistema poetico della lingua italiana sia molto simile a
quello francese ci sono alcune differenze che lo rendono unico. Cosí se in un verso
italiano si incontrano due vocali si crea un dittongo che viene considerato come
un’unica sillaba. Il verso italiano più diffuso è l’endecasillabo. In questo tipo di verso
ci sono undici sillabe e viene accentata la penultima (decima).
Lo scopo del traduttore di un testo poetico è sempre quello di trovare un modo di
lasciare intatta la struttura e il contenuto del verso. Tuttavia, come per il soggetto, è
necessario conservare anche la forma. Non è sempre facile trovare in una lingua di
arrivo una forma o un verso simile a quello della lingua di partenza ed è anche ovvio
che non esistono due sistemi di lingua identici e quindi è quasi impossibile lasciare
intatto sia il contenuto sia la forma e il metro del verso. Proprio per questo motivo il
lavoro del traduttore viene altamente apprezzato.
La traduzione di un testo letterario si complica sempre con la necessità di
trasmettere l’informazione sulla struttura dell’opera. In particolar modo questo
18
riguarda i testi poetici, siccome la struttura di essi è molto complessa:
l’organizzazione ritmica del verso, la rima, le strofe. Ovviamente, è impossibile
conservare completamente la forma del testo originale e quindi l’arte del poetatraduttore è saper trovare il punto di incrocio tra l’originale e la traduzione.
Si parla spesso dell’intraducibilità del testo poetico. Il linguaggio poetico è
molto diverso da tutti gli altri, siccome quello che è espresso da esso non può essere
espresso da altre parole o nessi lessicali. Il riassunto tradotto che cambia il suono
cambia anche il contenuto. Inoltre bisogna ricordare che una qualsiasi opera artistica
può avere tante interpretazioni. Per questo motivo per la traduzione è caratteristico il
fenomeno della pluralità (Darmodehina 1999: 132).
La base della realizzazione di una traduzione poetica dal punto di vista dello
scopo comunicativo-pragmatico
è la teoria linguistica della traduzione. Questa
scienza riguarda la traduzione poetica nel corso della comunicazione interlinguistica,
cioè riguarda il processo della traduzione di un testo poetico, il risultato, tutti i
partecipanti della comunicazione e tutti i fattori che influenzano il processo e il frutto
della trasformazione interlinguistica.
Lo svolgimento di una qualsiasi traduzione viene effettuato in quattro tappe:
1)
la lettura dell’originale (si tiene in considerazione la personalità
dell’autore e la competenza del lettore-traduttore);
2)
la traduzione e l’analisi linguistica e stilistica dell’originale basata sulla
comprensione (più profonda della comprensione di un lettore comune);
3)
la traduzione letteraria del testo originale;
4)
l’analisi comparativa del risultato della traduzione e delle traduzioni
eseguiti dagli altri traduttori (se esistono) (Ivi: 133).
L’analisi comparativa ha sempre una meta ambigua. Da una parte, essa serve per
rivelare le perdite, gli errori e le difficoltà inevitabili con cui si incontra il traduttore.
Dall’altra parte è necessario per rivelare tutte le particolarità di ogni traduttore.
Prima di eseguire l’analisi comparativa è importante studiare il testo originale e
capire che cosa è principale e che cosa è secondario nella traduzione, le dominanti del
traduttore e l’influenza del traduttore per il condizionamento sociale delle due
19
traduzioni messe a paragone. A seconda dei risultati di questo studio viene eseguita
l’analisi comparativa (Latišev 2008: 125).
Dal punto di vista della conservazione nel testo tradotto delle caratteristiche
pragmatiche dell’originale, il metodo linguistico è soggettivo, ma il suo risultato può
favorire la creazione di una variante nuova o perfezionata della traduzione poetica
(Ivi: 154).
2.2 La traduzione dei realia
Come è stato già accennato esistono diverse difficoltà che il traduttore affronta
facendo una qualsiasi traduzione. Una di queste difficoltà è la traduzione dei realia. I
realia sono gli oggetti o i fenomeni сaratteristici di un paese. Nella linguistica cosí
vengono chiamate le parole e i nessi lessicali che segnano questi oggetti o fenomeni.
Secondo gli studiosi Vlahov e Florin esistono diverse categorie di realia, e i nomi
propri fanno parte di una di esse. I nomi propri non sono solo i nomi delle persone, ma
anche i nomi geografici (toponimi), zoonimi o fitonimi, ecc (Vlahov, Florin 1980:
214).
La formazione dei toponimi in ogni lingua è un processo complicato dal punto di
vista storico e linguistico. Secondo le ricerche eseguite sul tema della traduzione dei
realia, le tecniche principali della traduzione sono le seguenti:
- utilizzo delle parole con un significato simile (se nella lingua di arrivo
esiste questo fenomeno);
- generalizzazione;
- descrizione;
- traslitterazione;
- trascrizione;
- utilizzo dei calchi.
La traslitterazione nella linguistica è il modo di trasporre singole parole o testi
interi con le lettere e i mezzi di un altro sistema grafico. Esso è spesso usato nei casi
in cui le lingue hanno due diversi sistemi grafici, come per esempio, il russo e
20
l’italiano. Cosí le lettere di una lingua vengono scelte a seconda del suono che
rappresentano.
La trascrizione è la rappresentazione grafica dei suoni di una parola.
Il calco linguistico è la traduzione di una parola con l’uso delle strutture della
lingua di partenza. Spesso proprio il calco è il variante da preferire, siccome con la
trascrizione si possono creare parole impronunciabili.
La descrizione è il modo di trasporre il lessico che non ha nessun equivalente
nella lingua di arrivo. Si tratta della definizione del contenuto dei realia. Questi tipi di
traduzione sono spesso verbosi. Per questo motivo la descrizione si usa pochissimo
nella traduzione dei testi poetici (Fenenko 2001: 85).
2.3 L’aspetto pragmatico della traduzione
È noto che la quantità dei fattori non linguistici differisce da lingua a lingua,
perciò il traduttore non può essere sicuro che l’oggetto presente nella lingua di
partenza sarà presente nella lingua di arrivo. Per questo motivo il traduttore deve
essere capace di trasmettere i significati degli oggetti assenti nella lingua di arrivo.
Questo fenomeno nella linguistica di oggi viene chiamato l’aspetto pragmatico della
traduzione (Nojbert 1978: 233). Il concetto di pragmatica riguarda tutte le questioni
legate alla
comprensione dei fenomeni linguistici o extralinguistici di tutti i
partecipanti al processo comunicativo. Si tratta non solo della comprensione, ma
anche della interpretazione loro a seconda dell’esperienza linguistica ed
extralinguistica delle persone che prendono parte alla comunicazione (Barhudarov
2008: 107).
Secondo V. Komissarov, invece, la pragmatica è
«l’influenza sul processo e sul risultato della traduzione è necessità di riprodurre
il potenziale pragmatico dell’originale, e l’aspirazione di lasciare sul recettore
l’impressione desiderata» (Komissarov 1990: 210).
Ogni testo è caratterizzato da certi aspetti pragmatici, che lo influenzano
seriamente e richiedono una trasmissione adeguata nel testo di arrivo. Questi aspetti
21
riguardano tutti gli elementi che fissano le relazioni tra il testo e i soggetti della
comunicazione (l’autore e il recettore). L’autore cerca cosí di trasmettere
l’informazione in modo da garantire al lettore una comprensione adeguata per cui
l’informazione viene trasmessa a seconda dalle caratteristiche quantitative e
qualitative delle conoscenze del lettore.
Il potenziale pragmatico è il risultato della scelta da parte del traduttore del
contenuto e dei metodi della sua trasmissione. A seconda delle sue intenzioni
comunicative, l’autore della traduzione sceglie le unità linguistiche. L’adeguatezza
della traduzione dipende dall’adattamento pragmatico. Inoltre, esistono tipi di testo, i
cui parametri pragmatici, tranne qualche particolarità stilistica, hanno una valenza
internazionale. Per esempio, i testi scientifici e i testi tecnici. I testi che hanno bisogno
di un notevole adattamento pragmatico sono quelli letterari, i testi del linguaggio
giornalistico e della pubblicità.
La prima fase del processo di traduzione è quella durante la quale il traduttore fa
la parte del recettore del testo originale. Il traduttore cerca di raccogliere tutte le
informazioni del testo, perciò deve essere in possesso delle stesse conoscenze hanno i
parlanti nativi della lingua di partenza. Perciò la realizzazione di tutte le funzioni del
traduttore presuppone una buona conoscenza della storia, della letteratura, degli usi e
costumi, della vita moderna e degli altri realia del popolo della lingua di partenza.
Come qualunque altro recettore dell’originale, il traduttore può avere un suo
parere a proposito dell’oggetto della traduzione. Il traduttore non deve mostrare
questo suo aspetto personale nella traduzione e rimanere oggettivo dal punto di vista
della pragmatica.
Durante la seconda fase della traduzione il traduttore cerca di garantire al lettore
la comprensione dell’informazione iniziale. Il traduttore deve tener conto del fatto che
il recettore non solo fa parte di un’altra comunità linguistica, ma è anche una persona
con un’altra cultura e con un’altra storia. Nei casi in cui questi fattori ostacolino la
comprensione completa della informazione iniziale, il traduttore deve cercare di
cambiare qualcosa nel testo, perché l’informazione diventi chiara al recettore. La
mancanza di alcune conoscenze è la ragione per cui il traduttore esplicita
l’informazione (Ivi: 211).
22
Analizzando il potenziale pragmatico dell’originale, il traduttore può mirare a un
certo gruppo di recettori che possiedono di un insieme di conoscenze nel campo di cui
si tratta nel testo originale. L’orientamento su questo tipo di gruppo aiuta il traduttore
ad evitare moltissime spiegazioni pragmatiche. D’altra parte, se la traduzione è
mirata a un gruppo di recettori con un livello di conoscenze più basso, una gran parte
dell’informazione o sarà fraintesa, o non sarà compresa affatto e la quantità delle
spiegazioni aumenterà.
I problemi pragmatici della traduzione sono sempre legati alle particolarità del
genere di testo e al tipo del gruppo di recettori a cui mira l’autore del testo. Nella
trasmissione linguistica del potenziale pragmatico di un testo letterario il traduttore
può incontrare notevoli difficoltà. Capita raramente che in testi di questo tipo vengano
descritti gli eventi storici o gli usi e costumi del popolo. Queste particolarità culturali
richiedono attenzione da parte del traduttore, in quanto evidenziano
differenze
pragmatiche tra la lingua di partenza e quella di arrivo.
La traduzione dei testi tecnico-scientifici richiede una ricostruzione pragmatica
del testo molto meno invasiva se il testo è rivolto a un gruppo di specialisti che
possiedono un bagaglio di conoscenze più o meno uguale in tutti i paesi.
Per quanto riguarda i testi di carattere propagandistico o i testi di pubblicità di
merci esportate, essi sono tutti rivolti a un recettore che parla un’altra lingua. Gli
autori di testi di questo tipo dovrebbero tenere conto del carattere e delle conoscenze
di un lettore straniero. Cosí viene anche facilitato il compito del traduttore, che non
deve adattare il testo. Tuttavia, gli autori dell’originale non sempre riescono a
eseguire il loro compito ed è il traduttore che in questi casi deve risolvere i problemi
pragmatici della traduzione.
I fattori sociolinguistici hanno una grande importanza nella garanzia
dell’adeguatezza pragmatica. In particolare, il difficile sta nella traduzione
dell’originale in cui sono presenti delle varietà linguistiche. La presenza di elementi
dialettali nell’originale può servire per la caratterizzare i personaggi (in un testo
letterario) e in questo caso la riproduzione del dialetto nella traduzione non avrà alcun
senso. Se, invece, tutto il testo originale è scritto in dialetto, la traduzione deve essere
eseguita come la traduzione da una qualsiasi lingua nazionale.
23
In alcuni casi lo scopo pragmatico della traduzione coincide con l’effetto
comunicativo che l’autore dell’originale vuole ottenere. Per quanto riguarda i testi
narrativi, l’effetto dipende dalla capacita del traduttore di mantenere o conservare i
pregi del testo letterario di partenza. Il compito di base della traduzione di un testo di
questo tipo è quello di creare un’opera nella lingua di arrivo che abbia lo stesso effetto
comunicativo. Il lettore, dopo aver letto le opere dei grandi scrittori stranieri, deve
capire il motivo per cui questo autore viene apprezzato cosí altamente nel suo paese.
Se il traduttore ci è riuscito, vuol dire che l’effetto comunicativo dell’originale è stato
trasmesso in un modo adeguato.
Allo stesso tempo il compito principale dei testi tecnico-scientifici è quello di
spiegare o indicare come funziona il mondo che ci circonda. La trasmissione
dell’effetto pragmatico del testo originale avviene correttamente se il lettore della
traduzione può servirsene come se di un manuale dell’utente.
Insomma, dal punto di vista della pragmatica, la traduzione di un testo poetico
più adeguata può essere considerata quella che punta sull’aspetto semiotico del testo.
§3. Criteri di valutazione di una traduzione
3.1 L’adeguatezza e l’equivalenza della traduzione
La questione essenziale della scienza della traduzione è seguente: secondo quali
criteri una traduzione viene considerata equivalente all’originale? Ovviamente, non
ogni sostituzione di un testo con un altro può essere chiamata traduzione. Il processo
di traduzione, o trasformazione linguistica, viene eseguito secondo certe regole, e nei
casi, nel caso in cui esse non vengano seguite, non si tratta più di traduzione. Il testo
della lingua di arrivo deve avere qualcosa in comune con il testo di partenza per essere
chiamato traduzione. Secondo Barhudarov,
«Durante il processo di sostituzione di un testo con un altro si deve conservare
una certa invarianza. La misura della conservazione di questa invarianza definisce la
misura dell’equivalenza al testo originale» (Barhudarov 2008: 108).
24
Quindi è necessario definire, prima di tutto, che cosa rimane invariato durante
la trasformazione linguistica.
Per affrontare questa questione bisogna ricordare che ogni lingua è un sistema di
segni e ogni segno viene caratterizzato dal significato e dal significante. Tenendo in
considerazione questo, si può dare la definizione di processo di trasformazione
linguistica o traduzione: cosí viene infatti chiamato il processo di sostituzione del
testo scritto o parlato in una lingua con il testo scritto o parlato in un’altra lingua
tramite la conservazione del significato e del significante, cioè con la conservazione
della forma e del contenuto del testo originale.
Nonostante il fatto che l’adeguatezza e l’equivalenza siano concetti base nella
scienza della traduzione e vengano considerati come criteri di valutazione di qualsiasi
traduzione, il problema della valutazione della traduzione non è stato ancora risolto.
Non esiste un’opinione comune su questo aspetto e sulla traduzione in generale. La
maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che per i vari stili e le vari funzioni
valgano criteri diversi.
V. Komissarov nel suo libro «La teoria della traduzione (gli aspetti linguistici)»
offre un sistema di criteri basato su una gradazione dell’errore (Ivi: 315). Secondo lo
studioso esistono quattro tipi di errore:
1) gli errori che, una volta commessi, fanno travisare il significato del testo
originale in modo grave (cambia lo scopo della comunicazione o il recettore della
traduzione);
2) gli errori che fanno travisare una parte del contenuto del testo (una
trasmissione imprecisa di alcune parole e dettagli dell’originale);
3) i casi in cui il contenuto rimane intatto, ma viene cambiato lo stile
dell’originale;
4) violazione delle norme linguistiche.
Malgrado la chiarezza di questi criteri, un valutazione che tenga conto solo di
essi, è possibile esclusivamente nei casi dei testi scolastici.
Per valutare i testi letterari esistono i seguenti criteri:
1)
la chiarezza o la trasmissione adeguata delle frasi idiomatiche;
25
2)
l’esattezza della traduzione dei modi di dire;
3)
la vicinanza al contenuto dell’originale;
4)
la presenza di errori che travisano il contenuto;
5)
la presenza dii errori che travisano le particolarità stilistiche
dell’originale;
6)
l’assenza di errori grammaticali e ortografici;
7)
la corrispondenza alla sintassi e alle regole della lingua di arrivo;
8)
la conservazione dell’aspetto pragmatico del testo originale.
I concetti di equivalenza e di adeguatezza includono tutti criteri elencati.
L’equivalenza riguarda la vicinanza del contenuto del testo tradotto a quello
dell’originale e la corrispondenza del lessico e della sintassi dei testi di partenza e di
arrivo.
L’adeguatezza a suo modo riguarda la conformità delle particolarità stilistiche, la
precisione della traduzione delle frasi idiomatiche e dei modi di dire, la correttezza
semantica e la conservazione dell’aspetto pragmatico.
Per quanto riguarda l’assenza di errori ortografici e grammaticali, questo è un
criterio necessario dei testi scientifici. Tuttavia, nei testi letterari la deviazione dalle
regole ortografiche e grammaticali è accettabile nei casi in cui si debbano ricreare le
caratteristiche linguistiche del personaggio. Dunque, tutte le violazioni delle norme
grammaticali e ortografiche devono essere trasmesse nella lingua di arrivo.
L’adeguatezza e l’equivalenza hanno delle relazioni di tipo gerarchico.
L’equivalenza è un criterio di primo livello. Qui si rivela non solo la corrispondenza
tra il contenuto del testo dell’originale e della traduzione, ma anche se le strutture
sintattica e lessicale della traduzione sono vicine a quelle del testo originale.
L’adeguatezza è il criterio di secondo livello. A questo livello si rivela la
corrispondenza tra i sistemi semantici e stilistici dei due testi e tra lo scopo
pragmatico dell’originale e della traduzione.
L’analisi e la valutazione della traduzione vengono eseguite secondo il seguente
modello:
26
1)
si definisce il livello di equivalenza per mezzo della concordanza della
struttura sintattica e lessicale delle proposizioni, tenendo conto della conservazione
dello scopo comunicativo;
2)
a seconda dell’applicazione delle trasformazioni linguistiche si può
valutare il livello di equivalenza della traduzione;
3)
la valutazione dell’adeguatezza semantica viene eseguita con l’aiuto
dell’analisi componenziale. Il concetto di questa analisi verrà preso in esame alla fine
di questo paragrafo;
4)
si mettono in evidenza i mezzi espressivi usati dall’autore dell’originale
e si valuta se essi vengano anche usati dal traduttore.
3.2 L’analisi componenziale
L’analisi componenziale nella linguistica è
« il metodo di studio del piano del contenuto. Lo scopo della presente analisi è
quello di scomporre il significato nelle minime componenti semantiche. L’analisi è
basata sull’ipotesi che significato di ogni unità linguistica è composto dalle
componenti semantiche e la composizione lessicale di una lingua può essere descritta
con l’aiuto di un numero limitato di segni semantici» (Kuznetsov 1990: 685).
In un insieme di lingue studiate vengono rivelati i tratti distintivi grazie ai quali
esse si distinguono e anche i tratti che uniscono le unità delle lingue della ricerca.
Quindi la descrizione dei fatti viene effettuata attraverso la descrizione dei segni che
fanno parte del piano del contenuto delle lingue.
Tornando ai criteri di valutazione di una traduzione basata sui concetti di
adeguatezza e di equivalenza si può notare che un tale approccio permette di svolgere
un’analisi complessa e trarre delle conclusione sulla qualità della traduzione eseguita.
Secondo le particolarità menzionate per questi due concetti, si possono notare delle
differenze tra il concetto di adeguatezza e il concetto di equivalenza:
1)
l’adeguatezza della traduzione è orientata al processo della traduzione
mentre l’equivalenza riguarda il risultato delle relazioni tra il testo originale e il testo
tradotto;
27
2)
la completa equivalenza esige una massima una trasmissione del
contenuto funzionale del testo originale e dei suoi fini comunicativi. Mentre
l’adeguatezza riguarda una traduzione esistente nella quale la completa trasmissione
un contenuto comunicativo-funzionale è impossibile in tantissimi casi;
3)
il concetto di equivalenza riguarda la conservazione del contenuto
dell’originale nella traduzione e riflette anche la conformità della struttura sintattica
del testo tradotto e quello originale. L’adeguatezza riguarda invece la conservazione
delle particolarità pragmatiche e stilistiche dell’originale (Ivi: 686).
Tutto sommato, questi due concetti non sono identici ma sono due categorie
legate tra loro e dipendenti l’una dall’altra. L’equivalenza rispecchia la conformità
della composizione lessicale e della struttura semantica dell’originale e della
traduzione. Tuttavia, questo concetto non riguarda la trasmissione dei semi
fondamentali, delle particolarità stilistiche e dello scopo pragmatico. Le nozioni
elencate rientrano nel concetto dell’adeguatezza e cosí come l’equivalenza non è di
per se un criterio sufficiente, neanche l’adeguatezza da sola è sufficiente per una
trasmissione complessa.
Attraverso l'analisi del materiale didattico, nel prossimo capitolo si cercherà di
studiare la traduzione italiana dei versi romagnoli di Tonino Guerra eseguita da
Roberto Roversi.
28
Capitolo 2. L’analisi della traduzione italiana dei versi dialettali
della raccolta poetica «I bu» di Tonino Guerra
Disponendo ora degli strumenti teorici, possiamo procedere all’analisi del
materiale linguistico selezionato. Esso è rappresentato dai versi di tutte le poesie della
raccolta “I bu” del grande poeta romagnolo Tonino Guerra e dalla traduzione di
queste poesie eseguita da Roberto Roversi.
Roversi non è solo un grande poeta e scrittore bolognese, un partigiano della
Resistenza, ma è anche un amico del cuore di Guerra. Non si sa precisamente il
momento in cui si sono conosciuti personalmente, ma è certo che nel 1965 Guerra
scriveva a Roversi, dandogli del “tu” (Bagnoli, I bu. La storia di un libro 2012: 180).
La traduzione della raccolta «I bu» è il primo lavoro che due poeti hanno eseguito
insieme. Nel 1967 la casa editrice Rizzoli propone a Guerra di pubblicare la sua
raccolta di poesie dialettali e si rivolge a Roversi per la traduzione italiana. Come
segue dalle lettere riportate nell’appendice dell’ultima redazione de “I bu”, è stato il
direttore editoriale della Rizzoli a proporre a Roversi di eseguire la traduzione delle
poesie di Guerra (Ibidem). La collaborazione cominciata nel 1967 è stata finita solo
nel 1972. Durante tutto il processo della traduzione i due poeti sono rimasti in contatto
ciò si vede dalla corrispondenza tra lo scrittore e il traduttore riportata nello stesso
appendice (Ibidem).
In questo capitolo la traduzione di Roversi verrà analizzata passo-passo, per
piccoli frammenti, parola per parola, cosí da poter evidenziare quanto ci interessa
conoscere per poi analizzare il materiale in maniera ordinata e lineare.
La raccolta di poesie dialettali di Tonino Guerra pubblicata nel 1972 dall’editore
Rizzoli, con una prefazione di Contini e la traduzione di Roberto Roversi è in realtà
una “raccolta delle raccolte”. Il libro consiste di sette raccolte di poesie scritte da
Tonino Guerra in diversi periodi della sua vita e sono i versi in ordine, dai più vecchi
ai più recenti. Le raccolte sono seguenti: “Primi versi” (12 versi), “Gli scarabocchi”
(15 versi) , “Favole” (14 favole), “La casa nuova” (8 versi), “Il colpo di fucile” (9
versi), “Il lunario” (10 versi), “Ultimi versi” (7 versi). Il materiale linguistico della
tesi è rappresentato da tutti i versi di tutte le raccolte menzionate (75 versi). In questo
29
capitolo verranno fatti osservazioni particolari sull’interpretazione di alcuni passi di
tutti questi versi. I versi verranno analizzati dal punto di vista della presenza dei
diversi tipi di realia, dal punto di vista della presenza delle espressioni idiomatiche.
Inoltre verranno studiati i casi interessanti della traduzione riguardanti le particolarità
del dialetto romagnolo.
§1. La traduzione dei realia
1.1 La traduzione degli antroponimi
Come è stato già accennato nel primo capitolo, una delle difficoltà che affronta il
traduttore, facendo una qualsiasi traduzione è la trasmissione linguistica dei realia.
Abbiamo anche menzionato che esistono diversi tipi dei realia, tra quali ci sono i
toponimi, antroponimi, zoonimi, fitonimi, oggetti della cultura di un popolo, i nomi
degli usi e costumi, ecc.
Per quanto riguarda le poesie della raccolta «I bu» di Tonino Guerra, anche in
esse sono presenti alcuni toponimi e altri tipi di realia caratteristici di Santarcangelo di
Romagna.
Il tratto distintivo della poesia di Guerra è il realismo particolare della sua
scrittura. Il poeta dai nomi propri si serve per restringere e circoscrivere ulteriormente
un mondo. Si tratta non solo dei luoghi, ma anche dei personaggi di Santarcangelo,
cioè degli antroponimi. In questo paragrafo ci concentriamo sulla traduzione dei nomi
propri dei personaggi di Guerra.
Quasi tutti personaggi della raccolta hanno qualcosa di insolito, ma al tempo
stesso, famigliare (Lingua-dialetto-poesia 1973: 75). In totale in tutte le poesie sono
menzionati otto nomi propri degli abitanti dello spazio poetico di Guerra. Sono
seguenti: Piròun del verso «Piròun», Marièta («La butaiga»), Sivio («Sivio e' mat»),
Piróz («Piróz»), Rico («Rico»), Santin («Dabon Santin?»), Gino («E’ gatt sòura e’
barcòcall»), Giulio («La s-ciuptèda»). Vediamo dalle seguenti citazioni come questi
nomi sono stati tradotti dal traduttore:
30
1.
«Piròun»
«La i à cantè la zvèta sòura e’ ghètt
E da e’ su lètt Piròun u l’à santèida.»
(Tonino Guerra «I bu», «Piròun» p.30).
«Pirone»
«Sulle case lontane, nel ghetto, la civetta ha cantato
E anche Pirone dal letto l’ha ascoltata»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.31).
2.
«La butaiga»
«Li, la padròuna, la è spèsa la tènda;
s’la n’à santéi, pruvè ’d ciamè Marièta.»
(Tonino Guerra «I bu», «La butaiga» p. 58).
«La bottega»
«La padrona è dietro la tenda
se non vi sente entrare
provate a chiamare Marietta.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p. 59).
3.
«Sivio e' mat»
«che l'éra avstéid da chéursa
Sivio e’ mat. »
(Tonino Guerra «I bu», «Sivio e' mat» p.60).
«Silvio il matto»
«perché vestiva da corsa
Silvio il matto.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.61).
4.
«Rico»
«e un fiòur tal mèni,
Rico.»
(Tonino Guerra «I bu», «Rico» p.68).
«Rico»
«un fiore in mano,
Rico.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.69).
5.
«Piróz»
«E dréinta una barcaza sfònda
u i sta Piróz»
31
(Tonino Guerra «I bu», «Piróz» p.98).
«Piroz»
«Dentro a una di queste barche sfondate ci sta Piroz»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.99).
6.
«Dabon Santin?»
«Dabón Santin che t’ a n craid invéll?»
(Tonino Guerra «I bu», «Dabon Santin?» p.112).
«Sul serio Santino?»
«Ma davvero Santino non credi proprio a niente?»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.113).
7.
«E’ gatt sòura e’ barcòcall»
«U i géva:- Gino va là vén zò
da rèta, dòunca, ma quèl ch’u t déi e’ tu ba»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ gatt sòura e’ barcòcall» p.114).
«Il gatto sull’albicocco»
«Gli diceva: - Gino va là vieni giù
da’ retta alle parole del tuo babbo»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.115).
8.
«La s-ciuptèda»
«la bòra, se bumbès ch’l’à Giulio t’agli urèci
e in chèva un cartunzéin »
(Tonino Guerra «I bu», «La s-ciuptèda», p.142).
«Il colpo di fucile»
« coi crini, con la bambagia che ha Giulio negli orecchi»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.143).
Dalle traduzioni si vede che quasi tutti i nomi propri citati nella raccolta «I bu»
appartengono al gruppo dei nomi italiani comuni che non hanno un’etimologia
significativa. Inoltre, non ci vogliono delle trasformazioni fonetiche per una
traduzione adeguata. Per questo motivo il traduttore lascia intatti i seguenti nomi:
Gino, Giulio, Rico (Bagli 2011 online: 45).
I nomi che hanno subito una trasformazione fonetica sono seguenti: Sivio (in
romagnolo) – Silvio (in italiano), Piróz (in romagnolo) – Piroz (in italiano), Piròun (in
romagnolo) – Pirone (in italiano), Santin (in romagnolo) – Santino (in italiano),
32
Marièta (in romagnolo) – Marietta (in italiano). Nel dizionario dei nomi propri di
persona si possono trovare i nomi Silvio (ha le origini latine, deriva dalla parola latina
«selva», «bosco»), Marietta (variente di Maria) e Santino (deriva dal latino e vuol dire
il diminutivo dal Santo) (Burgio 1992). Ciò significa che questi nomi in romagnolo
provengono dall’italiano. I nomi Piroz e Pirone non sono presenti nel dizionario dei
nomi italiani (Ivi), molto probabilmente questi nomi hanno le origini germaniche o
bizantine e non hanno un analogo italiano. Tuttavia l’autore della traduzione trova un
modo di tradurre anche questi nomi a seconda dei criteri di equivalenza.
1.2 La traduzione della topografia santarcangiolese
Il realismo della poesia di Guerra riguarda anche i toponimi. Nei versi della
raccolta «I bu» di Guerra si può incontrare molti nomi delle città italiane e delle città
straniere, nomi dei paesi stranieri, nomi dei paesini di Romagna e i nomi dei luoghi
santarcangiolesi. In totale in tutte le poesie della raccolta sono
menzionati 16
toponimi e 4 riferimenti precisi, che si possono definire addirittura “toponimi”.
Dalle seguenti citazioni vediamo come sono stati tradotti da Roberto Roversi i
toponimi presenti nelle poesie di Tonino Guerra.
Nel primo verso della raccolta sono menzionati quattro nomi propri dei luoghi:
1.
«La mi ma la è stè»
«La mi ma la è stè
a Burdouncia, San Véid
e d’là de fióm.
È mi ba l’è stè
in Amèrica,
a New York»
(Tonino Guerra «I bu», « La mi ma la è stè », p.29).
«Mia mamma è stata»
«Mia mamma è stata
a Bordonchio, a San Vito,
anche di là del fiume.
mio padre, lui è stato
in America,
33
a Nuova York.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.30).
I toponimi «Burdouncia», «San Véid» e «New York» sono stati tradotti e invece
«Amèrica» ha subito solo una piccola trasformazione fonetica, riguardante la «è»
romagnola. «Burdouncia», «Amèrica» e «San Véid» sono stati tradotti con i loro
equivalenti italiani. Per quanto riguarda il toponimo «New York» è un caso
interessante, perché si incontra anche nella poesia «La miséria» («La miseria»)
dell’ultima raccolta «E lunèri» («Il lunario») e in questi due casi il nome della città
americana viene tradotto in due modi diversi: «Nuova York» nella poesia «La mi ma
la è stè» e «New York» nella poesia «La miséria»:
2. «La miséria»
«E vén dé znóv ch’l’andéva una miséria
ch’l’era avnéu bón al bózi dal patèti
e néun la dménga a stémi si sédeili
e vdai pasè la machina de’ Còunt.
E pu i à vért i pass e Gisto l’è andè in Frènza
e dri ma léu l’è andè tót i Marmòta
e me a so andè piò in là, fina a New York»
(Tonino Guerra «I bu», «La miséria», p.164).
«La miseria»
«Nel ventinove c’era una tale miseria
che si mangiavano le bucce di patate
a alla domenica seduti sulle panche
guardavamo passare la macchina del conte
Finalmente hanno aperto la frontiera
e Gisto è andato in Francia
dietro a lui sono andati i Marmòts
io invece sono andato più in là, fino a New York»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.165).
Si può presumere che le traduzioni sono diverse perché il traduttore era cosciente
del periodo in cui le poesie erano scritte. La prima poesia fa parte della prima raccolta
di Guerra «Primi versi» e quindi era scritta negli anni 40’, la seconda, invece, è degli
anni 50’. Può essere che la tendenza di non italianizzare il nome di questa città è
cominciata dopo gli anni 50’ e perciò il traduttore ha scelto questa variante di
34
traduzione del toponimo nella poesia «La miséria». Per quanto riguarda la traduzione
del toponimo «Frènza» menzionato nella poesia «La miséria» è tradotto con il suo
equivalente italiano «Francia».
La seguente poesia è piena dei toponimi:
3. «Italia»
«I vén da l’Argéntina
in do che i bréusa e’ grèn par mandè i tréno,
e da e’ Braséil ch’l’è grand cumè l’Evròpa
e i bóta in mèr al bali de’ cafè;
i aréiva da l’America e de’ Nord
sa dal caméisi bienchi e si ucèl d’or,
e i vén da l’Inchiltèra
ch’la manda i télégrama in chèva e’ mond
se nass un fiul me re.
Nu v’incantè sultènt a guardè l’Umbria
ch’la dórma soura schéini d’elefent;
nu v’incantè la saira ulta mal spiagi
o in mèz e’ soul che bal soura i palaz.
Pensé ma quei chi chèmpa tla Calabria
e i dorma tra dal pigri e di sumar,
pensé ch’i compra l’aqua zo in Abroz
pensé ma dal capani dri me Po
sa di burdèl ch’i tréma da fevra
e u i è i suldè la saira tal casérmi
che lou i n’è bon da scréiv ma la murousa.
Zénta ch’a vnéi da fura nu scurdév
ch’u n’è tot or e’ soul ch’avéi d’atonda.»
(Tonino Guerra «I bu», «Italia», p.162).
«Italia»
«Vengono dall’Argentina
dove bruciano il grano per fare andare i treni
vengono dal Brasile grande quanto l’Europa
dove buttano il caffè nel mare,
vengono dal nord America
con la camicia bianca e gli occhiali d’oro
o vengono dall’Inghilterra
che manda i telegrammi dappertutto
se nasce un figlio al re.
35
Ma non incantatevi soltanto a guardare l’Umbria
che dorme su una schiena d’elefante
non incantatevi di sera lungo le spiagge
o nel sole che picchia sopra i palazzi.
Pensate alla gente della Calabria
che dorme con le pecore e i somari
a chi in Abruzzo compera ancora l’aqua
o alle capanne vicino a Po
con i bambini che tramano per la febbre
ai soldati di sera nelle caserme
che non sanno scrivere alla morosa.
Voi che venite da fuori non scordate
che non è tutto d’oro il sole che vi circonda.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.163).
Nei versi sono stati citati sia i toponimi stranieri, sia quelli italiani. Prima di tutto
l’autore usa i nomi dei paesi stranieri: «Argéntina», «Braséil», «l’America e de’
Nord» «Inghiltèra» e Roversi li traduce con i loro equivalenti italiani: «Inghilterra»,
«Argentina», «Brasile», «nord America». I primi tre hanno subito una piccola
trasformazione fonetica, nel terzo il traduttore cambia l’ordine delle parole cosí come
lo vuole la lingua italiana.
I nomi delle regioni italiane sono anche tradotte a seconda di tutte le regole della
toponomastica italiana: le forme romagnole di «Umbria» e di «Calabria» sono uguali
a quelle italiane «Umbria», «Calabria». Nel caso di «Abroz» il traduttore ha dovuto
trasformare un po’ la parola perché suoni correttamente in italiano: «Abruzzo»
(Queirazza, Marcato, Pellegrini, Petracco Sicardi, Rossebastiano 2006). Il nome della
regione geografica «Evròpa» ha subito la trasformazione: «Europa» e il nome del
fiume «Po» è rimasto intatto in italiano, visto che esso coincida interamente con
quello romagnolo.
4. «L’insogni»
«A i ò insugné da ès t’una tradóta
ch’andéva sò in Gérmania déportèd.
I chép staziéun i déva e’ via mé tréno
si biciarótt chi éra pin ’d béra e’ d s-cióma.
36
I m’à tólt só te schéur par la visira
ch’à dueva andè e’ procèss tl’éultum vagoun,
e a sém passè te bòurg ad Sant Andréa
cl’era pin ’d zénta avstéida da tédésch
si pnéll da bèrba tònda me capèll»
(Tonino Guerra «I bu», «L’insogni», p.50).
«Il sogno»
«Sognavo che in una tradotta
andavo in Germania deportato,
nelle stazioni davano il via al treno
con bicchieri colmi di birra e di schiuma.
M’han preso su e portato al processo
nell’ultimo vagone
mentre il treno passava per Sant’Andrea
che era pieno di gente vestita da tedeschi
con i pennelli da barba sul cappello.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.51).
Questa poesia fa parte della raccolta «Préim vérs» («Primi versi»), quindi è
scritta durante la guerra o subito dopo, ciò vuol dire che il verso non è un ricordo
lontano, ma è un’espressione delle emozioni ancora molto vive. Nei versi vengono
menzionati due toponimi molto lontani uno dall’altro non solo geograficamente, ma
anche da come vengono percepiti dall’autore. Tuttavia, tutti i due («Gérmania» e
«Sant Andréa») in italiano sono rimasti quasi intatti con una solo piccola
trasformazione di «é» romagnola: «Germania», «Sant’Andrea».
I prossimi esempi riguardano i cosidetti “riferimenti precisi”, i nomi dei luoghi
di Santarcangelo conosciuti solo dai santarcangiolesi. La maggior parte dei personaggi
di cui abbiamo parlato nel primo paragrafo di questo capitolo abitano in un ambito
preciso e concreto che è appunto Santarcangelo di Romagna, una piccola città
romagnola in cui nel 1920 nacque Tonino Guerra (Sito ufficiale di Tonino Guerra
[online]).
L’autore delle poesie ha pure messo la maiuscola qualche volta per fare l’accento
sul carattere geografico dei luoghi santarcangiolesi citati nei versi.
5. «La cèva»
37
«La cèva u gli à butéda l’anzal ’d lata
ch’l’è sòura e’ Campanoun, purètt piò ’d li.»
(Tonino Guerra «I bu», «La cèva», p.34).
«La chiave»
«La chiave gliela ha buttata l’angelo di latta
Che sta sopra al campanone, povero più di lei»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.35).
«La cuntrèda»
«Un tòc, al dò, e’ sòuna e’ Campanòun.
Par la cuntrèda al schèrpi al batt si sass
e dréinta al cambri chi sint i nóst pass
e’ scréca i létt ad fòi ’d furmantòun.
L’anzal de’ vént ch’l’è sòura e’ Campanòun,
u s’à guérs dri andè zò ma la cuntrèda,
e quand ch’avém vultè sla fèin dla strèda
la sgné témpèsta dri dal nosti spali.»
(Tonino Guerra «I bu», «La cuntrèda», p.48).
«La contrada»
«Un suono, le due, batte il campanone
nella contrada le scarpe picchiano sopra i sassi
dentro le camere che ascoltano i nostri passai
scricchiolano i letti con le foglie di frumentone.
L’angelo del vento infilzato sopra la campana
ci ha visti in giro per la contrada
e appena abbiamo svoltato in fondo alla strada
ha segnato tempesta alle nostre spalle.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.49).
Nei versi citati «La cèva» («La chiave») e «La cuntrèda» («La contrada») tre
volte si incontra la parola «e’ Campanòun» scritta con la maiuscola. Secondo Augusto
Campana è il campanile, la torre dell’orologio, la torre comunale ed è scritta con la
maiuscola perché Guerra la riguarda come un vero toponimo (Lingua-dialetto-poesia
1973: 62). Nel verso «La cèva» e una volta nel verso «La cuntrèda» l’autore per
tradurre sceglie la parola «campanone» e nel secondo caso nella poesia «La cuntrèda»
38
lascia «la campana». In tutti i tre casi Roversi non mette la maiuscola, ma la
trasmissione del significato delle parole è eseguita molto correttamente. Cosí, il lettore
capisce che si tratta di una campana, ma non capisce che si tratta di un toponimo.
Tuttavia, la maiuscola in questo caso potrebbe trarre in inganno il recettore e per
questo motivo la traduzione di Roversi può essere considerate adeguata.
6.
«La mi ma la è stè»
«La mi ma la è stè
a Burdouncia, San Véid
e d’là de fióm.»
(Tonino Guerra «I bu», « La mi ma la è stè », p.29).
«Mia mamma è stata»
«a Bordonchio, a San Vito,
anche di là del fiume.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.30).
«E’ trénéin»
«O vést e’ tréno
a scartamént ridótt
che ’d saira
l’è tra al chèsi ad là de’ fióm.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ trénéin», p.56).
«Il trenino»
«Ho visto il treno a scartamento ridotto
che di sera passa tra le case
di là del fiume.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.57).
Come si vede dalle poesie citate «d’ là de fióm» ricorre nella raccolta due volte.
La prima volta nel verso «La mi ma la è stè» e la seconda con diversa grafia «ad là
39
de’ fióm» nel verso «E’ trénéin». Vediamo che cosa ha detto Campana nel corso del
seminario su Tonino Guerra a proposito della traduzione italiana di questa frase
eseguita da Roversi («di là del fiume»):
«Non vuol dire semplicemente «al di là del fiume» che è un espressione del tutto
generica, ma vuol dire di là del Marecchia. Questa espressione tipica riguarda il fatto
che fin dal Trecento di là del fiume Marecchia c’erano due parrocchie che
appartenevano al complesso del vicariato di Santarcangelo. C’era quindi la necessità
di esprimere in qualche modo questa situazione amministrativa; cosí è nata la frase
«al di là del fiume». Non è generica, ma specifica perciò può essere considerata un
toponimo (Lingua-dialetto-poesia 1973: 62).»
Augusto Campana è una delle persone più famose e rispettate di Santarcangelo, è
il parlante nativo del dialetto romagnolo e la sua critica sembra giustificata. Tuttavia,
la traduzione di Roversi è mirata al gruppo dei recettori con un livello di conoscenze
dei realia santarcangiolesi molto più basso, alle persone che non parlano il romagnolo
e molto probabilmente non sono mai state a Santarcangelo, ciò significa che il nome
del fiume Marecchia non gli avrebbe detto niente e loro sarebbero state confuse. In un
caso come questo la traduttologia vuole che il traduttore cerchi di risolvere il
problema pragmatico senza perdere l’effetto comunicativo dell’originale. Dal nostro
punto di vista, Roberto Roversi è riuscito a risolvere questo problema in tutte volte,
lasciando la frase «di là del fiume» senza lunghe spiegazioni, conservando cosí
l’immagine della poesia di Guerra.
7. «La cèva»
«Stasaira l’è passè par la Cuntrèda
la vècia ch’la n’à chèsa d’andè stè»
(Tonino Guerra «I bu», «La cèva», p.34).
«La chiave»
«Stasera è passata per la contrada
la vecchia che non ha casa dove stare»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.35).
«La Cuntrèda»
40
«Un tòc, al dò, e’ sòuna e’ Campanòun.
Par la Cuntrèda al schèrpi al batt si sas»
(Tonino Guerra «I bu», «La cuntrèda», p.48).
«La contrada»
«Un suono, le due, batte il campanone
nella contrada le scarpe picchiano sopra i sassi»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.49).
«E’ sanatori»
«ch’l’à al cambri sparguiédi tal zità
ch’l’à i paiarézz ad fòi tal Cuntrèdi.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ sanatori», p.118).
«Il sanatorio»
«che ha le camere sparpagliate nella città
ei materassi di foglie nelle contrade.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.119).
«E’ pióv»
«E’ pióv sal chèsi, e’ pióv si èlbar chi è néud,
e sòta e’ vièl e’ passa la caròza;
mo tla Cuntrèda i va mèni in bacòza
e in tèsta un fazulètt sa quatar néud.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ pióv», p.36).
«Piove»
«Piove sulle case piove sopra gli alberi nudi
per il viale passa la carrozza
su nella contrada camminano con le mani in tasca
e un fazzoletto con quattro nodi in testa.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.37).
Per quanto riguarda
«La Cuntrèda» anche essa ricorre quattro volte nella
raccolta: nella poesia «La cèva» («La chiave»), nella poesia «La Cuntrèda» («La
contrada»), «E’ sanatori» («Il sanatorio») e nella poesia «E’ pióv» (Piove). La parola
viene scritta dal poeta con la maiuscola, il traduttore invece la scrive con la
minuscola. Le Contrade sono una parte antica si Santarcangelo ed è compresa nel
41
cerchio delle mura e per il poeta è veramente un toponimo (Lingua-dialetto-poesia
1973: 63). Tuttavia, per una persona di madrelingua italiana “la contrada” vuol dire
«quartiere di città, rione» (Gabrielli 2011). Quindi, è un concetto che può riguardare
una qualsiasi città. Per un lettore non-abitante di Santarcangelo questa parola è
sconosciuta dal punto di vista della geografia santarcangiolese e non dice niente
tranne la definizione appena menzionata, perciò scrivere questa parola con la
maiuscola in traduzione vorrebbe dire creare le difficoltà sul piano della
comprensione del testo. Tutto sommato, la scelta di Roversi in questo caso risponde ai
criteri di adeguatezza citati nel primo capitolo di questo studio.
8. «La morta»
«i améig, la tu faméia,
al piènti de’ Pasègg ch’a gli à cl’udòur»
(Tonino Guerra «I bu», «La morta», p.120).
«La morte»
« gli amici, quelli della famiglia, i fiori
del viale che hanno quell’odore»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.121).
Il prossimo “toponimo”, menzionato da Guerra nella sua poesia «La morta» («la
morte») è «Pasègg» tradotto da Roversi come «viale». Si tratta del viale Gaetano
Marini, comunemente chiamato viale del Passeggio (Lingua-dialetto-poesia 1973:
63). «Viale del Passeggio» è un “soprannome” conosciuto esclusivamente dagli
abitanti di Santarcangelo, il nome che non dice niente alle persone che non sono mai
state a Santarcangelo. La traduzione di Roversi conserva il contenuto del testo
originale e perciò l’equivalenza di essa può essere considerata completa.
Insomma, come si vede dall’analisi riportata, nella raccolta «I bu» di Tonino
Guerra sono stati menzionati 16 toponimi riconosciuti in tutto il mondo e 4 riferimenti
precisi o “toponimi santarcangiolesi”. Nel 14% dei casi il traduttore lascia intatti i
nomi dei luoghi, questi toponimi suonano e si scrivono ugualmente nel romagnolo e
nell’italiano. Nel 16% dei casi Roversi fa soltanto una piccola trasformazione
42
fonetica, togliendo l’accento grave sopra la “é” romagnola. Nel 57% dei casi i
toponimi romagnoli vengono italianizzati, subendo una trasformazione non molto
notevole. Nell’8% dei casi la scelta di Roversi è di non tradurre come toponimi le
parole scritte con la maiuscola. Nel 5% (un caso solo) dei casi il traduttore cambia
completamente la parola. Tutti i casi della traduzione rispondono ai criteri di
adeguatezza e di equivalenza, lasciano intatti la forma e il contenuto del testo
originale.
§2. La traduzione delle frasi idiomatiche romagnole
Il romagnolo è pieno di modi di dire, di fraseologismi e delle frasi idiomatiche.
Tuttavia, è un dialetto e non è stato ancora studiato cosí bene dal punto di vista della
fraseologia cosí come una lingua nazionale. In questo paragrafo proviamo a studiare
la traduzione italiana delle frasi delle poesie della raccolta «I bu» che si avvicinano di
più alla definizione di una frase idiomatica.
1. «Nadèl de’ 44»
«Da piò burdèl a m’gudéva la faza
Quand che l’avnéva la fèsta ’d Nadèl.
Tóta la nòta e’ tutéva la sdaza
e la matèina i m’ daséva e’ sti bèll»
(Tonino Guerra «I bu», «Nadèl de’ 44», p.38).
«Natale del ’44»
«Da ragazzo anche la faccia mi luccicava
quando arrivava la festa di natale
Per tutta la notte si muoveva il setaccio
e la mattina mi davano il vestito bello.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.39).
In questa poesia la nostra attenzione è stata attirata dalla frase «a m’gudéva la
faza». È un’espressione superlativa che non è presente nella lingua italiana. Vuol dire
«mi godevo un mondo» o «stavo benissimo». È un’espressione idiomatica e non è
presente nel dizionario della lingua romagnola, per scoprire il vero significato si è
43
dovuto chiedere i parlanti nativi della lingua romagnola. La traduzione di Roversi è
seguente: «la faccia mi luccicava». «Luccicare» in italiano vuol dure «splendere», ma
quando si parla degli occhi vuol dire che «uno sta per piangere (anche dalla gioia)»
(Gabrielli 2011). In questo caso il protagonista è felice, molto probabilmente che sta
per piangere dalla felicità, quindi la traduzione trasmette molto bene il contenuto del
testo originale.
2. «E’ trénéin»
«Mi vécc chi sta sal bènchi
a stè d’avdai
u i s’è smurtè la pépa.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ trénéin», p.56).
«Il trenino»
«Ai vecchi seduti a curiosare
davanti alle case
si è smorzata la pipa.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.57).
Il modo di dire presente in questo verso è «stè d’avdai». Il senso dell’espressione
è uguale a quello della frase italiana e «stare a vedere» (Ercolani 1960). I vecchi
stanno davanti alle case, stanno abbandonati, in un’atmosfera morta e ferma. Il
traduttore ha deciso di non usare lo stesso modo di dire italiano e ha scelto il verbo
«curiosare» per tradurre l’espressione. Cambiando il verbo, Roversi rende i vecchi
più interessati in quello che succede di fronte ai loro occhi. In questo caso viene
cambiata un po’ la forma del verso. Tuttavia, la traduzione è adeguata, perché il
cambiamento del contenuto non è particolare.
3. «E’ mi fióm»
«E u i è dal còunchi ’d réina
da stè cucléd dri l’aqua
in zirca d’or
s’óna ad cal sdazi vèci da faréina.
Te zil
una culomba a un téir da s-ciòp.»
44
(Tonino Guerra «I bu», «E’ mi fióm», p.64).
«Il mio fiume»
« Ci sono avvallamenti di sabbia
da star accoccolati vicino all’acqua
per cercare l’oro
con un vecchio setaccio da farina
nel cielo c’è
una colomba a un colpo di fucile.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.65).
In questa poesia di Tonino Guerra, dedicata al fiume Marecchia il caso di «a un
téir da s-ciòp» è molto interessante. Da una parte, la traduzione di questa frase può
essere «a un tiro di schioppo» che in italiano significa «non molto lontano, a breve
distanza, pari a quella che si può raggiungere con un colpo dei fucili di un tempo»
(Gabrielli 2011) e in questo caso frase ha il significato della determinazione di
distanza. Dall’altra parte è possibile che si tratti o del «colpo», o del «tirare». Il
traduttore sceglie la seconda variante e dice «a un colpo di fucile». La scelta del
traduttore può essere giustificata dal fatto che è molto probabile che Guerra avesse
parlato della distanza, che avesse usato questa frase e nello stesso tempo avesse
pensato che la colomba può essere uccisa dal tiro di schioppo di un cacciatore.
Insomma, è una traduzione equivalente e adeguata.
4. «L’insogni»
«Ècco e’ cmandènt dréinta t’un lètt ad fèrr
si rézz comè agl’i antèni dal farfali.
L’à détt qualcósa e pu la carg la svéglia:
un mang d’umbrèla e’ dvénta una manéglia
e la manéglia un struncòun ’d rivultèla»
(Tonino Guerra «I bu», «L’insogni», p.50).
«Il sogno»
«Il comandante sdraiato in un letto di ferro
tutto a ghirigori come le antenne delle farfalle
dice qualcosa poi carica la sveglia
Un manico d’ombrello diventa una maniglia
la maniglia una canna di rivoltella»
45
(Traduzione di Roberto Roversi, p.51).
Il questa poesia l’espressione «un struncòun ’d rivultèla» può avere due
significati: 1. «una canna di rivoltella» come la traduce Roversi. Durante il seminario
sulla poesia di Tonino Guerra da Augusto Campana è stato accennato che a
Santarcangelo «struncòun» vuol dire non solo lo «stelo d’erba», ma vuol dire anche
«vecchio», «uno straccio» (Lingua-dialetto-poesia 1973: 59). Quindi, se parliamo di
«struncòun» con il significato «vecchio», allora parliamo di questo nesso linguistico
come di un modo di dire, se invece lasciamo a questa frase il senso letterale e non
quello figurato, allora parliamo di «una vecchia rivoltella». Roversi
sceglie la
seconda variante che trasmette il senso letterale del testo originale.
5. «E’ sanatori»
«Andé pianin a fè dal sbacarèdi,
a batt i pi ma tèra s’andè a spass
tótt e’ rimbòmba dréinta e’ sanatóri
ch’l’à al cambri sparguiédi tal zità
ch’l’à i paiarézz ad fòi tal Cuntrèdi.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ sanatori», p.118).
«Il sanatorio»
«Andate adagio a ridere in quel modo
A strisciare i piedi per terra se camminate,
tutto rimbomba dentro al sanatorio
che ha le camere sparpagliate nella città
ei materassi di foglie nelle contrade.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.119).
Nella poesia «E’ sanatori» si parla dei poveri malati, e le frasi citate significano
il seguente: bisogna evitare di battere i piedi, non fare rumore, per non svegliare i
poveri malati. Insomma, la frase «batt i pi» ha un senso letterale in romagnolo
(almeno in questo verso), in italiano, invece può avere anche un senso figurato:
«dimostrare stizza, impazienza; fare capricci» (De Mauro 2000). Per questo motivo
tradurre con l’espressione «battere i piedi» vuol dire rischiare anche che il lettore
capisce la frase come «dimostrare stizza». Il nesso lessicale scelto da Roversi
46
«strisciare i piedi» non ha un senso figurativo e il significato non può essere frainteso,
perciò la traduzione può essere considerata adeguata.
6. «E’ gatin balós-c»
«un pèl, du pèl dla luce
e a n’l’ò vést piò.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ gatin balós-c», p.106).
«Il gattino sguercio»
«che andava da un palo a un altro della piazza
poi è scomparso.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.107).
In questa poesia Tonino Guerra crea l’immagine del gattino che se ne va, del
gatto cacciato di casa. Il poeta vede questo povero gattino allontanarsi, lo vede fare la
strada con i pali della luce, «un pèl, du pèl dla luce» (Ercolani 1960). Questa frase può
essere considerata idiomatica, perché l’autore con questi «pali» crea un’impressione
della distanza. Roversi traduce: «che andava da un palo a un altro della piazza». Dal
nostro punto di vista, la sensazione della distanza perсorsa dal povero gattino con
questa traduzione non è trasmessa, ma il compito pragmatico della traduzione è
eseguito, perché con una traduzione cosí come questa di Roversi si crea facilmente
l’immagine del povero gattino.
7.
«E’ bagn di purétt»
«Mo quand chi tòurna indri
ch’u i s’è fatt nòta,
i artróva al chèsi vèci dla cuntrèda
si gatt ch’i vó dè ad cóss
da i finestréin
e l’aqua céusa ti urz ad tèra còta.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ bagn di purétt », p.82).
«Il bagno dei poveri»
«Tornano che è già notte,
ritrovano le vecchie case
con le teste dei gatti ai finestrini
47
e tutta l’acqua chiusa nelle brocche»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.83).
Anche in verso «E’ bagn di purétt» si tratta dei gatti. Questi gatti vogliono «dè
ad cóss», cioè «dare di cozzi» (Ercolani 1960), cioè «abbatersi», «intoppare»
(Gabrielli 2011). È un’espressione idiomatica italiana passata in dialetto. Il traduttore
lascia «le teste dei gatti ai finestrini» e omette «dare di cozzi», facendo sí che
l’impressione che crea l’autore a riguardo dei gatti non viene trasmesso. Tuttavia,
questa omissione non cambia lo scopo pragmatico del testo poetico originale e la
traduzione può essere considerata adeguata.
Nella poesia «E’ pióv» («Piove») si tratta sempre di una frase idiomatica passata
dall’italiano in dialetto:
8. «E’ pióv»
«L’aqua ch’la bagna e ch’la fa léus i cópp
la casca te curtéil dréinta e’ tinazz;
-Ciudéi la porta e pu mitéi e’ cadnazz
ché ’d fura e’ dvénta una nòta da lóp.
E’ pióv sal chèsi, e’ pióv si èlbar chi è néud,
e sòta e’ vièl e’ passa la caròza;
mo tla cuntrèda i va mèni in bacòza
e in tèsta un fazulètt sa quatar néud.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ pióv», p.36).
«Piove»
«Un’acqua che bagna e fa bagna e fa luccicare i coppi
casca nel cortile dentro il tino
- Chiudete la porta sprangate con la catena
fuori si prepara un notte da lupi.
Piove sulle case piove sopra gli alberi nudi
per il viale passa la carrozza
su nella contrada camminano con le mani in tasca
e un fazzoletto con quattro nodi in testa.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.37).
Nella presente poesia Guerra per descrivere una notte difficile usa l’espressione
«nòta da lóp» che significa in italiano «notte da lupi». Molto probabilmente,
48
l’espressione in dialeto è passata dall’italiano e significa la stessa cosa «rafforzativo
legato ai concetti di duro, difficile, ostile, detto del clima, di un luogo o altro che si
considerano adatti soltanto ai lupi» (Gabrielli 2011). Come traduzione Roversi
sceglie la frase originale passata nel romagnolo, trasmettendo cosí il contenuto del
verso.
9. «E’ bagaròzz»
E léu e la luméga
i fa la strèda insén;
mo li l’andéva pièn,
ch’u i vléva ch’u ’l sa Dio
e pu a di bén,
andè fina ma chèsa.
Alòura e’ bagaròzz
e’ slònga e’ pass
e quand ch’l’é un po’ che va
l’è da par léu.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ bagaròzz», p.92).
«Lo scarabeo»
«e due si incamminano insieme
ma lei era così lenta che solo dio
sapeva quando sarebbero arrivati. Se poi arrivavano.
Allora lo scarabeo allunga il passo
e in poco tempo è solo.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.93).
L’autore della poesia «E’ bagaròzz» («Lo scarabeo»), descrivendo l’incontro
dello scarabeo e della lumaca, usa l’espressione «slònga e’ pass» che si traduce
proprio cosí come l’ha tradotta Roberto Roversi: «allungare il passo» (Ercolani
1960). Siccome due frasi sono uguali in romagnolo e in italiano (oltre un piccolo
cambiamento fonetico), la traduzione in questo caso non è solo adeguata, ma anche
equivalente.
10. «La chèsa nòva»
«U i è cl’ann che tótt i pénsa ad fès la chèsa
49
di dri te prè ch’u s’vaid da la finèstra
e il déi ma la muròusa, ad mètt da pèrta
un frènc, du frènc, tri frènc e’ dè...»
(Tonino Guerra «I bu», «La chèsa nòva», p.110).
«La casa nuova»
«Arriva sempre il momento in cui ognuno
pensa di farsi casa
nel prato là dietro, nel prato che si vede dalla finestra
e allora confessano alla morosa
che stanno mettendo da parte
una lira, due lire, tre lire ogni giorno.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.111).
Nella poesia
«La chèsa nòva» («La casa nuova») il protagonista vuole
risparmiare i soldi per costruire una casa nuova, perciò l’autore dice in romagnolo:
«mètt da pèrta un frènc, du frènc, tri frènc e’ dè...», il traduttore traduce la frase con il
suo analogo italiano, cambiando, però, la su forma grammaticale perché il testo
italiano suoni in un modo più naturale: «che stanno mettendo da parte una lira, due
lire, tre lire ogni giorno».
La maggior parte delle frasi idiomatiche romagnole incontrate nella raccolta «I
bu» sono passate nel dialetto dall’italiano e quindi hanno un analogo nella lingua
nazionale. Per questo motivo il traduttore non è stato costretto a cercare
una
traduzione particolare. Questo tipo di traduzione conserva sempre il contenuto del
testo originale e in tantissimi casi subisce solo una trasformazione fonetica non molto
notevole. Insomma, la traduzione delle frasi idiomatiche delle poesie romagnole di
Tonino Guerra risponde a tutti i criteri di valutazione della traduzione.
§3. I casi particolari della traduzione
In questo paragrafo esaminiamo i casi in cui il traduttore si rinuncia dei principi
della traduzione letterale. Sono stati annotati alcuni casi ne «I bu» in cui ci sono
parole non tradotte, o perché il traduttore non ha ritenuto di tradurle, o perché secondo
il suo modo di sentire in quella poesia non erano necessarie. Alcune volte omette dei
versi interi. Molto spesso omette delle parole che non gli sembrano poeticamente
50
significative, ma secondo gli studi accennati nel primo capitolo, se un’unità linguistica
ha un senso costitutivo dell’immagine della poesia, allora, queste parole sono proprio
poeticamente necessarie.
«Zarchè»
«M’al móci ’d spazadéura ti cantéun
l’aréiva chi burdèll a sfurgatè»
(Tonino Guerra «I bu», «Zarchè», p.46).
«Cercare»
«Ci arrivano i ragazzi a frugare
dei mucchi di rifiuti»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.47).
Nella poesia «Zarchè» viene omessa la parola «cantéun» che vuol dire in italiano
«nel cantone» o «in un angolo della stanza» (Ercolani 1960). Secondo Augusto
Campana
«è troppo importante ed è troppo costitutivo del quadro di questo verso, del
immagine di questa poesia» (Lingua-dialetto-poesia 1973: 58).
Tuttavia, per quanto riguarda questa traduzione, Roversi è riuscito a non
travisare il contenuto del testo originale e a conservare l’aspetto pragmatico del testo
poetico di Tonino Guerra.
Ne «La tradóta» non è stato tradotto il ritornello che c’è alla fine di ogni strofa
«viaza tradóta, na nòta la è fònda» in variante italiana è «viaggia tradotta, la notte è
fonda». In un caso come «La tradóta» questo ritornello sembra essenziale. È una
canzone, una «canta», secondo un termine romagnolo. Se si toglie il particolare
strofico del ritonello, si cambia la poesia. Tuttavia, il traduttore ha avuto un compito
estremamente difficile: come abbiamo accennato nel primo capitolo, il traduttore deve
sempre fare attenzione al sistema poetico non solo della lingua di arrivo, ma anche a
quello di partenza e in questo caso, probabilmente, per non rovinare la struttura del
testo poetico italiano Roversi ha dovuto togliere il ritornello, che comunque è tradotto
nel primo verso della poesia.
51
«La tradóta»
«Viaza tradóta, la nòta la è fònda,
passa la vala, trapassa i buréun
sint cóm i róssa i suldè ti vaghéun
chi zò ma tèra, chi sòura una spònda.
viaza tradóta, na nòta la è fònda
Una buracia la déndla sla tèsta»
(Tonino Guerra «I bu», «La tradóta», p.32).
«La tradotta»
«Viaggia tradotta, la notte è fonda
passa la valle trapassa i burroni
senti come russano i soldati dentro i vagoni
chi steso per terra chi appoggiato a una sponda.
(è assente il ritornello)
Una borraccia dondola sopra la testa»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.33).
Sempre nella poesia «La tradóta»
è stato notato un caso particolare della
traduzione:
«La tradóta»
«Una buracia la déndla sla tèsta
d’un pór suldè che te sònn u s’acònda»
(Tonino Guerra «I bu», «La tradóta», p.32).
«La tradotta»
«Una borraccia dondola sopra la testa
d’un povero soldato che nel sonno si riposa»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.33).
«S’acònda» in romagnolo vuol dire «si accomoda» (Ercolani 1960), cioè «si
aggiusta», rettifica la sua posizione nel sonno senza svegliarsi (Gabrielli 2011). In
questo caso nel verso di Guerra si tratta del soldato che non si sveglia nonostante la
borraccia, che lui si accomoda, ma comunque non si sveglia. Nella traduzione Roversi
usa il verbo «riposarsi» e cosí si cambia un po’ il significato del verso. Ciò
52
nonostante, il senso generale della poesia non venga travisato e la traduzione risponda
a tutti i criteri dell’equivalenza.
«La strèda mórta»
«Al strèdi agl’i era grandi e sénza féin
par néun budéll ch’a s’vlémi divértéi;
e raganèli e giarulin chi béll
e sass che ’d nòta e’ dvénta tèsti ’d mórt
(Tonino Guerra «I bu», «La strèda mórta», p.45).
«La strada morta»
«Le strade erano strade grandi senza fin
per noi ragazzi che volevamo divertirci,
raganelle ghiaia lucida sassi che
a notte sembrano teste di morti»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.44).
Nelle poesia «La strèda mórta» si parla del subcosciente. Lí sono sepolte tutte le
illusioni del poeta. Le immagini che rappresentano una specie di tomba sono i
pantani, le tele di ragni, i gusci vuoti di lumache.
Se parliamo della traduzione, «i giarul» sono i piccoli pezzi di ghiaia (Ercolani
1960). «I giarulin» è una forma vezzeggiata. «Сhi béll» vuol dire «quelli belli». È
un’immagine approfondita, scavata, accarezzata da Guerra. Il traduttore traduce con
«ghiaia lucida». Con questa traduzione si perde l’affetto che prova il traduttore per la
situazione descritta nel verso. Insomma, sul criterio del primo livello (l’equivalenza)
la traduzione potrebbe essere eseguita in un modo un po’ più preciso, per quanto
riguarda il criterio del secondo livello, la traduzione è completamente adeguata.
La poesia già accennata nel presente capitolo «La cuntrèda» ha anche una
particolarità nella traduzione di Roversi:
«La cuntrèda»
«L’anzal de’ vént ch’l’è sòura e’ Campanòun,
u s’à guérs dri andè zò ma la cuntrèda»
(Tonino Guerra «I bu», «La cuntrèda», p.48).
53
«La contrada»
«L’angelo del vento infilzato sopra la campana
ci ha visti in giro per la contrada»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.49).
Nella poesia «u s’à guérs dri» vuol dire «ci ha guardato dietro» (Ercolani
1960). Nella traduzione di Roversi è assente atto di volontà: «ci ha visti in giro».
Come nell’esempio precedente, la traduzione di questa poesia non è equivalente, ma è
adeguata.
«I scarabócc»
«par fè una réiga lònga
e quèlch invrócc.»
(Tonino Guerra «I bu», «I scarabócc», p.54).
«Gli scarabocchi»
«per fare una riga lunga e qualche segno.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.55).
Per quanto riguarda la poesia «I scarabócc», è molto difficile da tradurre dal
punto di vista lessicale. Roversi traduce la frase «quèlch invrócc» cosí: «qualche
segno». «Invrócc» vuol dire «svolazzo», «ghirigoro» (Ercolani 1960). La traduzione
trasmette il contenuto, ma non non la sfumatura espressiva e per questo può essere
considerata adeguata.
«I pidriul ad saida»
«E un dè la mi muraia
l’era pina
ad pidriul ad saida
che fa i ragn.»
(Tonino Guerra «I bu», «I pidriul ad saida», p.66).
«Tele di ragno»
«Un giorno il mio muro era tutto coperto
54
di quei ghirigori di seta che
fanno i ragni»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.67).
Nel verso citato già in nome si incontra la parola «pidriul» che secondo il
vocabolario etimologico romagnolo diviene da «pìdria», e vuol dire «grosso imbuto
usato per imbottare il vino» (Casadio 2010: 145). Roversi traduce «pidriul» come
«ghirigori» e conserva cosí il contenuto dell’originale, ma si può presumere, che la
traduzione, con la quale si potrebbe rispondere anche al criterio dell’equivalenza sia
seguente: «imbuti» di ragnatela.
«I tre cavéll»
«I spéin i l’à ciapè
e’ féil lizir ’d bavèla;
il mòla e pu i se ragna
e intènt chi zugarèla
i fa la télaragna
il mòla e pu i se ragna.»
(Tonino Guerra «I bu», «I tre cavéll», p.86).
«I tre capelli»
«E gli spini hanno afferrato il filo leggero di sera
lo tirano e litigano e intanto che ci giocano
fanno una ragnatela. Litigano e lo tirano.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.87).
«I tre cavéll» è la prima favola della raccolta delle favole. La frase «il mòla e pu
i se ragna» in questo verso è ripetuta due volte e vuol dire «lo mollano e poi se lo
litigano» (Ercolani 1960). La prima volta Roversi traduce cosí «lo tirano e litigano»
e la seconda cambia l’ordine delle parole: «litigano e lo tirano». Il contenuto della
traduzione non è uguale a quello del testo poetico originale, ma l’effetto comunicativo
è stato trasmesso ciò significa che la traduzione risponde ai criteri di valutazione della
traduzione di un testo poetico.
55
«E’ bagaròzz»
«E’ vaid una luméga;
e la luméga l’a i déi:
- Du vét?
- A vag a chèsa.
A fè chè?
- Bó!
- A vénga énca mè?
- Vén po.
E léu e la luméga
i fa la strèda insén;
mo li l’andéva pièn,
ch’u i vléva ch’u ’l sa Dio
e pu a di bén,
andè fina ma chèsa.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ bagaròzz», p.92).
«Lo scarabeo»
«Incontra una lumaca e la lumaca chiede:
dove vai?
vado a casa.
a far che?
bo!
vengo anch’io?
se vuoi;
e due si incamminano insieme
ma lei era così lenta che solo dio
sapeva quando sarebbero arrivati.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.93).
«E’ bagaròzz» un’altra favola che è difficile da tradurre dal punto di vista della
semantica. La frase «ch’u i vléva ch’u ’l sa Dio» può essere capita in due modi: 1. «a
percorrere quella strada ci voleva un’infinità»; 2. «solo dio sapeva quando sarebbero
arrivati» (Ercolani 1960). Il traduttore sceglie la secondo variante, anche se «pu a di
bén» vuol dire «a dire poco» o «a fare un conto misurato» (Ivi) ed è più probabile che
«ch’u ’l sa Dio» vuol dire «un’infinità». In ogni caso, non si sa precisamente che
cosa intendeva il poeta, il senso si capisce e la traduzione è adeguata.
56
«Piróz»
«Al bèrchi vèci al mór éulta me pórt
dri m’al capani di péscadéur
chi s’una spònda
sl’èlbar arbòrt,
chi bòca ’d ciòta
spuntéun dréinta l’ònda.»
(Tonino Guerra «I bu», «Piróz», p.98).
«Piroz»
«Le vecchie barche muoiono nel porto
dietro le capanne dei pescatori,
una è piegata su un fianco con l’albero rovesciato
un’altra con la bocca si sotto
è sprofondata nell’acqua.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.99).
Nella presente poesia Roversi traduce la parola «éulta» che in glossarietto della
stessa raccolta è tradotta come «oltre», lasciando semplicemente la preposizione
articolata «nel». In alcuni dizionari della lingua romagnola si può trovare la parola
«lungo» come la traduzione di «éulta» (Ercolani 1960). In questo caso è più adatta
proprio la parola «lungo», siccome essa crea un’immagine più vasta, disegna una
prospettiva.
«E’ gatin balós-c»
«A i ò cnuséu un gatin
ch’l’era balós-c
ch’l’à fatt una fadéiga
andè a titè!
Il cnéva mètt a pòst,
ch’i éra si gatt
i éra un gatin par tètal.»
(Tonino Guerra «I bu», «E’ gatin balós-c», p.104).
«Il gattino sguercio»
57
«Ho conosciuto un gattino sguercino che aveva fatto
una tale fatica per poppare! Io dovevano sistemare
imboccare
perché i gatti erano sei e dunque c’era un gattino per
tetta.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.105).
«E’ gatin balós-c» è un’allegoria delle persone umili e disgraziati. Di queste
persone, quando queste spariscono, non se ne parla più. Il voltafaccia finale non
nasconde l’affetto dello scrittore, ma invece, lo fa risaltare. Questo è un tratto
caratteristico della poesia di Tonino Guerra.
Per quanto riguarda la traduzione di questa poesia, già in nome di essa, la parola
«balós-c», che dopo ricorre nel verso tre volte, è tradotta da Roversi «sguercino» e
non «guercino». L’aggettivo «sguercino» non è riportato nei dizionari di una grande
importanza (come quelli di Tullio de Mauro, Garzanti, Zingarelli) e questo vuol dire
che è una forma popolare. Tuttavia è riportato il verbo «sguerciare» con la seguente
spiegazione: «far diventare guercio». È molto probabile che Roversi scelga a posto
questa traduzione per trasmettere la sfumatura espressiva della parola romagnola
«balós-c». Nella traduzione Roversi aggiunge anche un «perché» e un «dunque» che
non sono presenti nel verso originale. Queste parole non appesantiscono il testo e
rendono la traduzione più italianizzata.
«Sóura un cafélatt»
«Géma ch’a s sém vést la préima vólta in tranv
o t’un cantòun dl’America de’Sud,
che la tu gara mórta tonde e’ còl
s’l’udòur ad péss de’ póri Cantarèll,
l’éra una vòulpa nira da cuntèssa.»
(Tonino Guerra «I bu», «Sóura un cafélatt», p.116).
«Su un caffellatte»
«Ricordiamo il primo incontro in tram
o in qualche buco d’America del sud
diciamo che il pelo di gatta che porti al collo
con l’odore di piscio del povero Cantarel
era una volpe nera da contessa.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.117).
58
Nella poesia «Sóura un cafélatt» il poeta il primo verso comincia con la frase
«Géma ch’a s sém vést la préima vólta in tranv». «Géma» nel glossario della raccolta
del 1972 è tradotto «diciamo» (Guerra 1972). Questo «diciamo» può essere tradotto
«facciamo conto di esserci incontrati», Roversi cambia un po’ il senso e traduce:
«Ricordiamo il primo incontro in tram». Tuttavia, non sappiamo se nella poesia di
Guerra si tratti di un ricordo o no e perciò la traduzione può essere adeguata.
«E’ paradéis l’è brótt»
« E’ paradéis l’è brótt
s’u n gn’è un pó d’animèli
s’u i mènca la girafa se còl lòngh
e al mièri di gazótt ch’i rèsta sòtta tèra
in vòula piò te zil pri cazadéur.
Mo cum faral se u i capita e’ mi ba
che pasa do tre òuri dla su vciaia
s’una gatina biènca tla faldèda
e la mi ma ch’la pénsa d’artruvè una gata
ch’l’è andè a muréi dalòngh, d’fura da chèsa. »
(Tonino Guerra «I bu», «E’ paradéis l’è brótt», p.130).
«Il paradiso è brutto»
«Ma come farà mio babbo
che passa ore e ore della sua vecchiaia
con una gattina bianca in braccio
e come farà mia mamma
che pensa di ritrovarci l’altra gatta
che è andata a morire lontano, fuori di casa.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.131).
Nella poesia «E’ paradéis l’è brótt» il poeta usa la parola «faldèda» che deriva
dal gotico «falda» (piega della veste) (Casadio 2010: 67) e in romagnolo significa
quantità che può essere contenuta nell’incavo formato sollevando il lembo del
grembiale o della gonna (Gabrielli 2011). Dalla definizione di questa parola
romagnola si capisce il senso del verso citato. Il babbo del protagonista tiene la gattina
«sulle ginocchia». Roversi traduce «in braccio». Questa traduzione non travisa il
59
senso della poesia originale al tempo stesso non rovina l’immagine del verso italiano,
ciò giustifica questo piccolo cambiamento del senso.
«I bu»
«Andé a di acsè mi bu ch'i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fatt,
che adèss u s'èra préima se tratour
Andé a di acsè mi bu ch'i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fatt,
che adèss u s'èra préima se tratour.
E' pianz e' còr ma tòtt, ènca mu mè,
avdai ch'i à lavurè dal mièri d'ann
e adèss i à d'andè véa a tèsta basa
dri ma la còrda lònga de' mazèll.»
(Tonino Guerra «I bu», «I bu», p.136).
«I buoi»
«Ditelo ai miei buoi che l'è finita
che il loro lavoro non ci serve più
che oggi si fa prima col trattore
E poi commoviamoci pure a pensare
alla fatica che hanno fatto per mille anni
mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa
dietro la corda lunga del macello.»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.137).
In questa poesia, che ha dato il titolo al libro, vengono riconosciute tutte le
conseguenze drammatiche comportati dallo sviluppo delle tecnologie. L’autore riflette
sulla vita di queste povere bestie, sulla divergenza tra quello che fu e quello che c’è.
Dopo aver fatto l’analisi grammaticale della lingua romagnola (Pelliciardi 1977:
24), si può notare, che «mi» nella prima frase del verso è l’articolo composto «ai»,
quindi la frase romagnola «andé a di acsè mi bu» vuol dire «andate a dire ai buoi»,
Roberto Roversi traduce con la frase «ditelo ai miei buoi». Questa parentesi è di poca
importanza e non influenza valutazione della traduzione.
60
«La miséria»
«E vén dé znóv ch’l’andéva una miséria
ch’l’era avnéu bón al bózi dal patèti
e néun la dménga a stémi si sédeili
e vdai pasè la machina de’ Còunt.
E pu i à vért i pass e Gisto l’è andè in Frènza
e dri ma léu l’è andè tót i Marmòta
e me a so andè piò in là, fina a New York»
(Tonino Guerra «I bu», «La miséria», p.164).
«La miseria»
«Nel ventinove c’era una tale miseria
che si mangiavano le bucce di patate
a alla domenica seduti sulle panche
guardavamo passare la macchina del conte
Finalmente hanno aperto la frontiera
e Gisto è andato in Francia
dietro a lui sono andati i Marmòts
io invece sono andato più in là, fino a New York»
(Traduzione di Roberto Roversi, p.165).
Nel corso del seminario popolare questo verso è stato menzionato due volte. La
prima volta la traduzione di essa è stata criticata da Augusto Campana che ha notato
che nel verso si parlava della miseria del ’19 cioè del 1919. Il verso comincia con
queste parole: «E vén dé znóv ch’l’andéva una miséria» e secondo Campana «e vén
dé znóv» vuol dire «succede che» e che bisognava tradurre: «nel diciannove», ma
Roversi lascia «nel ventinove» (Lingua-dialetto-poesia 1973: 63).
Tuttavia, secondo Tonino Guerra, Roversi aveva capito tutto dell’idea del poeta,
ma ha preferito mettere il 1929, perché quello fu l’anno della crisi in America e lui ha
creduto di poter fare certi cambiamenti (Ivi: 65).
Concludendo, si può dire che attraverso l'analisi del materiale linguistico, si sono
potuti notare le particolarità della scelta del traduttore. La traduzione di Roversi è
interessante da tanti punti di vista. Prima di tutto, è molto importante che essa è stata
eseguita nel corso del continuo contatto tra l’autore e il traduttore del testo. Tuttavia,
è stata molto criticata dai linguisti e come si vede dall’analisi sviluppata questa critica
non è infondata. Comunque, il recettore principale della traduzione è Tonino Guerre
ed è stato lui il primo a difendere la presente traduzione e le scelte poetiche del
61
traduttore, ciò vuol dire che la sua poesia è stata rispettata e le particolarità di essa
sono state trasmesse correttamente. Inoltre, come si vede dall’analisi, la traduzione
risponde ai tutti i criteri di valutazione della traduzione di un testo poetico e nella
maggior parte dei casi può essere considerata adeguata ed equivalente.
62
Conclusioni
La presente tesi di laurea magistrale è dedicata allo studio della traduzione del
testo poetico dal dialetto romagnolo all’italiano e alle difficoltà che emergono nel
processo di questo tipo di traduzione.
Il materiale linguistico scelto per la ricerca è rappresentato dalla raccolta delle
poesie dialettali di Tonino Guerra «I bu» e dalla traduzione italiana di questi versi
eseguita dallo scrittore bolognese Roberto Roversi. L’oggetto dello studio è il lessico
romagnolo usato nei versi e la traduzione italiana di esso. Sono state studiate due parti
del discorso del lessico romagnolo presente nel libro «I bu»: i verbi e i sostantivi. Per
quanto riguarda i sostantivi, sono stati presi in esame sia i nomi comuni sia quelli
propri.
Lo scopo dello studio è stato rivelare le maggiori difficoltà che affronta il
traduttore eseguendo la traduzione di un qualsiasi testo poetico e capire come
risolvere questi problemi nel corso della traduzione. Abbiamo preso in esame alcuni
tipi di realia, poiché essi sono sempre di ostacolo a una traduzione adeguata. Inoltre,
abbiamo studiato i casi particolari in cui il traduttore si allontana un po’ da una
traduzione letterale.
Nel primo capitolo della presente tesi di laurea magistrale è stato analizzato il
materiale didattico che riguarda il dialetto romagnolo, la teoria della traduzione del
testo poetico e la teoria della traduzione dei realia. La lingua romagnola è stata
studiata da diversi punti di vista. Abbiamo preso in considerazione la geografia della
diffusione del romagnolo, le sue origini, la grafia e la pronuncia di esso. Oltre a ciò
abbiamo studiato anche le particolarità grammaticali di questo dialetto.
Dopo aver eseguito lo studio del romagnolo abbiamo preso in esame la teoria
della traduzione del testo poetico e i concetti più importanti della scienza di
traduzione: l’adeguatezza e l’equivalenza. Questi due concetti sono i criteri di
valutazione di una qualsiasi traduzione. Per quanto riguarda l’equivalenza si rileva da
una parte la corrispondenza tra il contenuto del testo originale e quello della
traduzione e dall’altra la vicinanza della struttura lessicale e di quella sintattica di
partenza a quelle della traduzione. L’adeguatezza è il criterio di secondo livello. A
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questo livello è possibile rilevare la corrispondenza tra i sistemi semantici e stilistici
dei due testi e tra lo scopo pragmatico dell’originale e della traduzione. Se invece
parliamo dell’aspetto pragmatico della traduzione, questo concetto riguarda tutte le
questioni legate alla comprensione dei fenomeni linguistici o extralinguistici di tutti i
partecipanti al processo comunicativo.
Nel secondo paragrafo del primo capitolo si è voluta fare un’analisi del materiale
teorico sulla traduzione dei realia. La traduzione dei realia è uno dei problemi che
affronta il traduttore. Siccome nel secondo capitolo della tesi sono presi in esame i
toponimi e gli antroponimi delle poesie di Guerra, nel primo capitolo è stato deciso di
studiare le tecniche principali della traduzione di questi tipi di realia.
Il secondo capitolo è dedicato allo studio della traduzione italiana del lessico
romagnolo delle poesie della raccolta «I bu» di Tonino Guerra. Il materiale linguistico
è rappresentato dal lessico e dalla traduzione di Rovesri di questo lessico di tutti i 75
versi della raccolta.
Lo scopo del secondo capitolo è stato quello di capire se il traduttore
dell’oggetto poetico prescelto sia riuscito a mantenere intatti i riferimenti culturali, se
l’informazione sia stata trasmessa correttamente con i mezzi poetici equivalenti e se la
traduzione dal romagnolo all’ italiano dell’oggetto di studio risponda ai criteri di
adeguatezza. Per raggiungere tale obiettivo è stato necessario analizzare per piccoli
frammenti tutti i versi della raccolta.
Nel primo paragrafo di questo capitolo sono stati analizzati gli elementi
onomastici delle poesie: gli antroponimi e i toponimi. Prima di tutto, abbiamo studiato
la traduzione dal romagnolo all’italiano dei nomi propri dei personaggi di Guerra.
Abbiamo scoperto che, in totale, in tutte le poesie della raccolta sono stati menzionati
otto nomi propri degli abitanti dello spazio poetico di Guerra. L’analisi svolta ha
mostrato che quasi tutti i nomi propri citati nella raccolta «I bu» appartengono al
gruppo dei nomi italiani comuni che non hanno un’etimologia significativa e non
richiedono delle trasformazioni fonetiche per una traduzione adeguata. Per questo
motivo il traduttore lascia intatto il 30% dei nomi. Il restante 70% degli stessi ha
subito una trasformazione fonetica: ciò vuol dire che questi nomi in romagnolo non
provengono dall’italiano. L’autore della traduzione trova un modo di tradurre tutti i
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nomi a seconda dei criteri di equivalenza. Nella seconda parte dello stesso paragrafo
abbiamo studiato la traduzione italiana dei toponimi della raccolta «I bu». In totale in
tutte le poesie della raccolta sono menzionati 16 toponimi e 4 riferimenti precisi, che
nel corso dell’analisi vengono chiamati i toponimi santarcangiolesi. Abbiamo
scoperto che nel 14% dei casi il traduttore lascia intatti i nomi dei luoghi, mentre
corrisponde al 16% il numero dei nomi in cui Roversi ha operato soltanto una piccola
trasformazione fonetica. Nel 57% dei casi i toponimi romagnoli vengono italianizzati,
subendo una trasformazione non molto notevole. Nell’8% dei casi la scelta di Roversi
è di non tradurre come toponimi le parole scritte con la maiuscola. Nel 5% dei casi il
traduttore cambia completamente la parola. Tutti i casi della traduzione rispondono ai
criteri di adeguatezza e di equivalenza e lasciano intatti la forma e il contenuto del
testo originale.
Nel secondo paragrafo è stata studiata la traduzione italiana delle frasi
idiomatiche romagnole presenti nei versi di Guerra. Abbiamo scoperto, che il dialetto
romagnolo è pieno delle frasi idiomatiche. Il traduttore ha cercato di scegliere per la
traduzione un analogo italiano della frase romagnola. Nel 70% dei casi la traduzione
di esse risponde ai criteri di adeguatezza e nel 30% dei casi risponde ai criteri di
equivalenza, ciò vuol dire che quasi in ogni caso studiato nel paragrafo, il contenuto
della frase è stato trasmesso correttamente, ma la forma del nesso lessicale è stata
cambiata dal traduttore.
Nell’ultima parte del secondo capitolo abbiamo analizzato i casi particolari in cui
l’autore si allontana dalla traduzione letterale. Allontanandosi, il traduttore comunque
riesce a mantenere il contenuto del testo originale e la traduzione rimane sempre
adeguata.
Concludendo, bisogna notare che la traduzione di Roversi risponde a tutti i
criteri di valutazione della traduzione del testo poetico. Il traduttore è riuscito non
solo a trasmettere il contenuto delle poesie dialettali di Guerra, ma anche a lasciare
quasi intatte tutte le particolarità e le sfumature espressive dell’opera originale. I
livelli dei principali criteri di valutazione (l’adeguatezza e l’equivalenza) sono molto
alti e i mezzi espressivi usati dall’autore dell’originale vengono anche adoperati dal
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traduttore, ciò vuol dire che la traduzione è stata eseguita in maniera soddisfacente dal
punto di vista dell’adattamento pragmatico.
Ovviamente, è quasi impossibile produrre una traduzione ideale che non solo
risponda a tutti i criteri di valutazione, ma che contemporaneamente non riceva alcuna
critica. Tuttavia, dal nostro punto di vista lo scrittore bolognese Roberto Roversi è
riuscito molto bene a trasmettere nella lingua italiana l’opera «I bu» del grande poeta
romagnolo Tonino Guerra.
Il presente studio può attirare l’interesse di tutti coloro che amano la poesia
dialettale romagnola. I risultati di essa potrebbero essere utilizzati nel campo della
traduzione poetica e nel campo dell’insegnamento della lingua italiana a stranieri.
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